Non sono, in verità, né un valente scrittore (mediocre è dire molto, anzi troppo) né uno storico eccellente; no, no, molto di molto meno, onestamente. Non credo pure d’essere un santo timorato, certamente che no; o un triste peccatore condannato, chissà. Forse ci sono: può darsi ch’io sia un vile od un eroe? Mah! In fin dei conti, oggi, che differenza fa?
Tanto per non sbagliarmi e in questo zibaldone dico che non son nulla, anzi poco di niente; di una cosa però son certo veramente: ancor sana ho la mente, la memoria è di ferro, né m’incuton spavento l’ulular e il belar di certa gente, nostrana o del potente.
Alt! Prima di continuare, scrivano mezza tacca e sconosciuto, vuoi dirci almen chi sei e donde sei venuto? Domanda più che giusta, legittima e opportuna alla quale rispondo senza remora alcuna. Sono un celoviek qualunque scampato ad un massacro che un tanto amato Padre, Stalin denominato, compì volutamente mezzo secolo fa in nome della pace e per la libertà, dei fessi proletari, comunisti di razza, per la verità. Togliatti e i fuoriusciti che in quel tempo lontano eran graditi ospiti, meglio vil servitori, del Capo kolkosiano, non aprirono bocca per salvare i fratelli, anzi, si adoperaron per convertire quelli ch’eran sopravvissuti a quell’eccidio infame voluto da quel despota, padrone del reame.
Il mio nome? Nessuno, forse Uno, Centomila di certo. E i morti dell’Armir? Dio mio, non ne parliamo, cambiamo d’argomento! Quei morti son spariti, portati via dal vento ed hanno ora dimora lassù nel firmamento. Morti scomodi quelli, o popolo perdente; morti chissà dove, e seppur morti, quando? Mormora e lagna il veritier sapiente sbracandosi in ossequi e la viscida coda dimenando.
Mai morti quelli per la Storia, le istorie e le storielle; niet kaput (non morti) per le favole, fiabe o zirudelle2. Morti diversi da tutti gli altri morti e da dimenticare per non minar la gloria del Nume popolare, del vincitor potente che i vinti con gli ignavi e i servi tutto fare devono in ogni tempo e ad ogni circostanza riverire e ossequiare.
La mia storia? Una triste, amara, indimenticabile, forse inimmaginabile storia vissuta, all’inizio dei verdi vent’anni, in un grande, rosseggiante paese da tempo oppresso, con leggi ferree che affondano le ramificate, vischiose radici nel più basso e oscuro medioevo, da un tangheraccio bolscevico i cui geni eran pregni delle nefandezze di Attila e della barbara ferocia di Genghiz khan; un umanoide disumano verniciato da essere umano che grondava sangue da tutti i pori, nessuno escluso.
È la crudele ma vera storia vissuta da un giovane ufficiale del 3° Reggimento Bersaglieri, preso dall’università e volontariamente inviato da un ridicolo, piccolo ma potente caporale, e in nome e per conto della sacra Patria, l’Italia, appunto, sul fronte di guerra russo nell’estate del lontano anno 1942 (Armir: ansa del Don, Kantamirovka, Migulinskaja, Sagrabelovka, Meskov, Konovalov). Ferito durante l’assalto alla piazzaforte di Meskov il 21 dicembre del 1942 e catturato il giorno dopo dall’Armata Rossa (le marce del davai, il treno del pianto e della morte, Vladimir, Suzdal’, il tifo petecchiale, la fame, la sete, il gelo, le angherie di ogni sorta, gli aguzzini foresti e nostrani, l’Nkvd4, Odessa), rimase poi prigioniero per lunghi anni in un lager dell’Urss (Suzdal’, Campo n. 160). Infine, dopo il rientro in Italia dei pochi soldati e ufficiali scampati al massacro staliniano, rientro avvenuto nel tardo 1945-inizio del ’46, ancora trattenuto nell’Urss quale uno dei cosiddetti ufficiali di Vienna (Sighet, Budapest, Vienna, Tarvisio, Milano) e infine ritornato a casa da quell’inferno rosso sul finire dell’anno di grazia 1946.
Narro questo incredibile calvario umano, spinto a ciò non certo da una presuntuosa, gretta vanagloria né da un ridicolo protagonismo bischereccio così in uso oggigiorno. No, no, soltanto per rispetto verso vecchi valori e poveri sentimenti in uso in un tempo oramai anni luce distante ma tutt’ora vivi nella mente e nel cuore di coloro che ebbero la sventura di vivere quell’immane tragedia che fu la guerra in Russia; per ricordare all’Italia e agli italiani immemori quei centomila fratelli caduti al fronte o in prigionia che a tutt’oggi dormono il sonno dei morti nelle grandi fosse comuni sparse nell’immensa steppa gelata dell’Urss, dimenticati da tutti, svaniti nell’oblio dei ricordi, defraudati anche di una lacrima, di una croce, di un fiore, omaggi questi dovuti, nel consesso delle umane genti, ai morti, a tutti i morti di tutte le guerre. Per ravvivare quel senso di amicizia che mi lega ai pochi scampati dall’inferno comunista, sopravvissuti e compatiti, sopportati, nemmeno commiserati dal nostro italico popolo di questa civiltà dei consumi consumati, dove: “ciascuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole… ed è subito sera”; Bel Paese in cui “ognuno vive fuori di ogni relazione, indifferente verso tutti i valori della tradizione e verso gli ideali che ci infuturano; dove le persone obese dal troppo, dal niente e dal tutto hanno voluto salire sopra il tempo e il paradosso è che da tale altezza non riescono a comunicare con nessuno, non dialogano perché non ascoltano, impongono la loro idea e non ascoltando non solo non imparano nulla ma non portano nulla”.
Fragili, cagionevoli individui della “indifferenza totale prodotta dallo spasmodico attivismo che vanno, camminano, corrono per non perdere tempo; corrono per riprendere e guadagnare tempo, passano frettolosi, impetuosi e che non arrivando mai a tutto, mancando loro il tempo, si pongono finalmente fuor dal tempo per sorridere sugli altri che lottano con il tempo; si considerano principio e fine e si esauriscono in un attimo che non è mai presente perché manca sempre del passato e della direzione che guida al domani”. Gente probabilmente sazia, beata, annoiata, angosciata ma che forse non ama più la vita, che odia la vita, o la teme. Chissà!