Capitolo 8 – I celoviek boscaioli e gli uomini-cavalli
I giorni intanto passano lenti come son lente le ore; il tempo tuttavia scorre ugualmente coi ritmi che la natura gli ha fissato. Il c.b. vive la solita vita di ieri, di oggi e forse di domani; la stessa vita di sempre. Le carte intanto, ultimate, sono state battezzate col rito ortodosso e benedette col ciai, sbrodaglia tipo tè-celoviek. Belle, bellissime!
Una partitina a bridge o a poker con esse inganna per un’ora la noia, attenua l’angoscia, smorza la rabbia, i pensieri e gli affanni dei prigionieri, attualmente in fase di leggera ripresa psico-fisica. La fame però è sempre la stessa; immutato l’assillo dell’Nkvd; ricorrente il timore di una partenza improvvisa per il Campo 27, la scuola di mistica comunista di Mosca; o per la Lubianka, il carcere malfamato del potere staliniano; o per la lontana Siberia, l’invivibile terra dei gulag44. Le delazioni proletarie e progressiste, numerose come le feci delle mosche, meglio non ricordarle per carità pagana. La bella stagione si apre a forza la strada anche qua; il tepore del sole sconfigge il freddo intenso del lungo ed uggioso inverno; la primavera passa rapida e silenziosa per far posto all’estate corta ma calda.
Alcuni celoviek sono stati prescelti per andare al bosco a far legna: un gruppetto si dedicherà al taglio degli alberi, altri al trasporto dei tronchi nel lager. Nascono così in questi giorni gli uomini-cavalli che con corde e con canapi, con le mani e col cuore trascinano per la steppa tronchi di bianche betulle e, arrancando, cantano le nenie degli schiavi negri.
Una serena mattina di un tiepido giorno qualsiasi anche il c.b. è chiamato a far parte della squadra che uscirà dal Campo a far legna.
– Che strano, che riguardo! – pensa il c.b. e sorride – Forse che tale piacevole attenzione sia frutto del caso o il premio per l’articolo, bocciato dalla nomenklatura senz’altro ma forse anche un tantino apprezzato come tentativo di redenzione e di avvicinamento al nuovo? Mah! E chi lo saprà mai?
L’uscita dalle mura del Campo emoziona e commuove il piccolo drappello dei sopravvissuti che, anche se mal fermi sulle gambette striminzite, avanzano nella steppa baldanzosi, o quasi, come un tempo lontano. Il piccolo fazzoletto di cielo che si vede nel lager sparisce d’incanto ed appare il cielo infinito, l’orizzonte vasto e lontano che si perde a vista d’occhio; svanisce l’opprimente sguardo delle bieche sentinelle che dall’alto dei torrioni e del cammino di ronda vigilano di giorno e di notte su tutto e su tutti (scusate, è un abbaglio di un reazionario perché un sergente progressista scrive sull’Alba che “la figura immobile delle sentinelle pare esser là, non per controllare i nostri movimenti, ma per proteggere e difendere dall’alto della garitta il nostro sonno”. Il reazionario aggiunge: “Ma no! proteggerci e difenderci dai pidocchi e dalle cimici, faccia di bronzo!”).
Intorno a noi si odora il profumo della vita che, anche se grama, è pur sempre vita pulita dall’odore di morte che aleggia come nebbia sul lager di Suzdal’. Ci sentiamo di nuovo esseri umani, cittadini di questo mondo terreno, uomini vivi, non certo liberi ma pur sempre uomini e non bestie soltanto. Lungo il cammino ci tornano alla mente i versi del sommo poeta: “fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza” 45.
Quattro soldati russi controllano la decina di prigionieri; due cani arrabbiati abbaiano in continuazione e danno l’impressione che da un momento all’altro debbano spezzare la catena che li tiene legati al braccio dei militari guardiani i quali non hanno le mostrine azzurre ma sanno solo dire “Nis naio, davai bistrà”.
La norma, la regola dei lavoratori di tutti i paesi socialisti, norma prevista in tutte le attività di qualsiasi specie o natura, stabilisce che ciascun boscaiolo abbatta e metta a dimora tre metri cubi di tronchi al giorno; i celoviek a mala pena raggiungono i trenta centimetri. Chi non raggiunge la norma corre il rischio di essere denunciato come sabotatore dell’Unione Sovietica; chi la supera, caso raro, tipo Stachanov46, viene messo in lista per la medaglia di Eroe della Patria socialista; coloro che fanno conto di raggiungerla sono in troppi per controllarli tutti e perciò va bene così. Speriamo in meglio!
L’accetta che è stata affidata al c.b. pesa tre o quattro chili; il neoboscaiolo pesa in tutto, lordo, circa trentasette chili e duecento. Usare quello strumento è un lavoro difficile e terribile che fa venire i sudorini freddi per tutto il corpo e un fiatone da paziente affetto da miocardite dilatativa; alzarlo al cielo è sforzo sovrumano; abbassarlo un po’ meno; colpire col taglio la tacca precedente quasi impossibile. Comunque qualche alberello cade ugualmente a terra, forse più per compassione che per la rottura dello zoccolo duro, o base.
Per alcuni giorni prosegue il lavoro che ti annienta ma che è tanto bello lo stesso; ti fa sentire vivo e questo è già molto. Nel frattempo le mani dei celoviek, nominati ex cathedra boscaioli, cominciano ad accusare la stanchezza; sono gonfie ed arrossate; grosse vesciche piene di un liquido sanguinolento o giallastro costellano i polpastrelli delle dita e le palme delle mani. Un amico celoviek medico consiglia, per lenire il fastidio, di forare le vesciche e far uscire quel siero che le rende esplosive. Un pezzetto di filo di ferro, utilizzato dopo lunga e lunga limatura manuale sulla pietra come ago dalla comunità, disinfettato con il fuoco del lume a petrolio, servirà a fare un foro d’entrata e di uscita nelle maledette bolle, dure come i capezzoli in fase erettiva; la pipì a getto diretto, prima e dopo il modesto intervento, disinfetterà la zona interessata. Al termine dell’operazione, però, un poco di sollievo è assicurato. Il lavoro prosegue per diversi giorni; la fatica è grande, ma la gioia di uscire dal lager vince ogni inconveniente ed ostacolo.
Un bel mattino la falangetta del dito medio della mano destra appartenente al c.b. si mette a fare i capricci; comincia a dolere con insistenza e intensamente. La vescica formatasi nei primi giorni di lavoro è stata forata a dovere; di liquido nemmeno l’ombra e la pelle biancastra, morta, che la ricopriva è oramai secca. E allora che succede? Si nota un leggero rossore esterno; un dolore sottocutaneo avverte che qualcosa non va nei tessuti più interni del ditone. L’amico medico sentenzia: un callo in linguaggio boschereccio, un bel flèmmone in termine medico, cioè una infiammazione acuta del tessuto connettivo, per ora circoscritta ha colpito la falangina del tuo ditone. Smettere per qualche giorno l’uso dell’accetta; tenere il dito al caldo (pipì in un barattolo, rinnovabile ad ogni raffreddamento e con l’aiuto di più donatori); fare impacchi umidi; sperare in bene.
Il c.b. si reca alla cosiddetta infermeria ed ottiene il permesso di restare per qualche giorno a riposo; ha inoltre in dono una spennellata di permanganato (così almeno è etichettata la boccetta che lo contiene) sul dito. La balenottera doctor, nel dare la pennellatura al ditone, mi ha sorriso; non ho capito bene se per compassione, per soddisfazione, per ammirazione o comprensione. Ma chi le capisce le balenottere doctor russe? Io no di certo!
Oltre al rossore che si allarga a vista d’occhio, il medio ribelle si gonfia sempre più; assomiglia stranamente ad un pezzo di camera d’aria di bicicletta fuoriuscita dal copertone. Il dolore è lancinante; l’arteria o le arterìole che portano il sangue al dito battono come se fossero l’aorta addominale compressa; lunghi brividi di febbre percorrono la schiena. Unico vantaggio in questa situazione è che non trovandosi in giro un termometro il malcapitato pensa, per star tranquillo, ad una febbriciattola da raffreddamento. Un po’ di sollievo si ottiene tenendo il braccio più in alto possibile, alzato verso il cielo come ad indicare ai naviganti la Stella Polare, ma non è una cosa semplice far ciò. È una parola riposare, camminare, tentare di appisolarsi con l’arto superiore teso all’insù.
Però la necessità, come sempre, aguzza l’ingegno; infatti il c.b. ha legato uno spago ad una tavola del castello sopra al suo giaciglio e, infilando il polso in un cappio fatto con la cordicella, riesce a tenere il braccio verso l’alto con meno sforzo. Ora il dito è talmente gonfio che a mala pena riesce a stare fra l’indice e l’anulare; l’aspetto della pelle è lucente e variegato; passa, senza soluzione di continuità, dal rosso al viola, si tinge di nero con chiazze giallastre e si colora a strati tipo arcobaleno. Sa tanto di un salsicciotto multicolore, pieno d’acqua.
Nuova visita medica degli amici dottori, poi anche un consulto tra specialisti chirurghi, generici e ortopedici di fama; presente anche un noto allievo del celebre Olivecrona, il mago del cervello47. Referto o sentenza: è indispensabile incidere il flemmone, e presto. Va bene, ma dove, come, quando?
Un paio di giorni dopo la situazione del ditone viene nuovamente esaminata con scrupolo deontologico. Nel frattempo la ghiandola sotto l’ascella del povero boscaiolo si è gonfiata e maledettamente duole; oltre ai brividi che gli scuotono il corpo anche i denti si sono messi a rullare come i tamburi di guerra degli indiani navajos:
“Non c’è altro tempo da perdere”, sentenziano i saggi.
L’intervento è programmato nei minimi dettagli; la ricerca dei mezzi necessari portata a termine con tempestività e scrupolo professionale, compatibilmente alle possibilità ambientali, ovviamente: il chiodo fungerà da bisturi; la sterilizzazione del ferro avverrà con la fiamma della lampada a petrolio; il pezzetto di sapone a base di soda caustica servirà al lavaggio del ditone; l’urina il disinfettante d’obbligo; una striminzita fascia ricavata dalla vetusta camicia grigioverde, lavata e risciacquata a dovere, verrà utilizzata come benda. Il celoviek è contrario alla botta in testa come anestetico d’emergenza e di ripiego. Visto che nel Campo etere o cloroformio non esistono affatto, preferisce farsi tenere ben stretto l’arto dagli amici e stringere sotto i denti un pezzetto di bianca betulla. Capo équipe chirurgica il celebre allievo di Olivecrona, il professor Quarti; aiuto il professor Mancini, ortopedico di fama48; cari, indimenticabili amici; eroi senza medaglie e senza onori, uomini veri però, ricchi di bontà e di umanità, rari esempi di fierezza, di patriottismo, di intaccabile dignità che emergevano sulla grigia comunità del lager 160 di Suzdal’.
Tutto è pronto nell’arena, alle cinque della sera; via allora! Zac; un colpo deciso dato dal chiodo affilato e ben stretto da abili mani, anche se ora un po’ tremolanti, incide da destra a sinistra il ditone malato: una stilettata al cuore, un breve roco grido di guerra, uno schizzo di pus d’intorno e, subito dopo, un dolce sollievo per il paziente incredulo e preoccupato. Quasi quasi sembra che il dito non faccia più male, che il dolore sia scemato d’incanto. Com’è bello poter stare dopo tanti giorni col braccio abbassato e senza quel dolore che faceva impazzire, specialmente di notte, il taglialegna in erba! La lunga e rugosa cicatrice rimasta sul medio ristabilitosi e un prolungamento del taglio anche sull’anulare, causato forse dal tremolio manuale del chirurgo, testimoniano ai posteri l’uso di un bisturi di ripiego; l’intervento chirurgico di fortuna; l’aiuto fraterno degli amici e del Signore verso un povero celoviek che, solo, soletto e sperduto nel niente, poteva contare soltanto sugli anticorpi che mamma gli diede e sugli auguri sinceri di tanti fratelli di sventura.
E nel lager la vita riprese a trascorrere come al solito e alla faccia di tutto e di tutti. Il c.b., dopo la breve convalescenza, desidererebbe ritornare a lavorare nel bosco ma le insistenti, ripetute richieste si perdono nel vuoto, inascoltate.
Trascorrono i giorni, le settimane pure, un mese anche e tutto tace intorno all’articolo presentato. La biblioteca è rimasta soltanto un ricordo sbiadito; le comunicazioni interrelazionarie col quasi paesano leninista e col fuoriuscito badante si sono interrotte come se una tempesta magnetica avesse sconvolto l’etere intorno al Campo 160. Nessun rimpianto in merito. Tutti tacciono sullo scritto e il c.b. se ne guarda bene dal chiedere lumi in proposito. Forse l’articolo meschinello è stato bollato a fuoco prima della lettura completa da parte del collettivo redazionale; più verosimilmemte, considerato infetto e portatore di virus borghesi e batteri revanscisti, sottoposto a disinfezione e disinfestazione totale, cioè al rogo. Mah! Meglio così che peggio! Durante le ore tristi e i più tristi momenti, che per oltre quattro lunghi anni sconvolsero mente, cuore e corpo dei pochi sopravvissuti, il ricordo delle carte aiutava e spronava a resitere. Che carte, gente! Di che nobile carta, quelle carte, popolo! E al solo ricordo il reazionario celoviek, con quel lampo negli occhi, con quel ghigno beffardo sulle labbra smunte, ripensava anche al potere immenso della filosofia, o pilosopia ch’è lo stesso; della pilosopia progressista, ben s’intende, di quella pilosopia più vera e possente di quella borghese. Ma che miserie, che sorprese in questo strano, immenso paese dove il Verbo è proletario e il Tovarisc cortese,… il trentadue di ogni mese!