Capitolo 9
Il primo colloquio interrelazionario con la nomenklatura e l’appello per Trieste alla Iugoslavia.
Nel lager solito vivere, stessa fame, inedia e rabbia a non finire. L’Alba, da foglio notizie a giornale, è sempre più chiara e più lunga; i tramonti sempre più brevi e più scuri; rare e intime le lodi al Signore.
Un dì, non di festa ma qualunque, anche il c.b. venne convocato alla Kommandantura. Ad attenderlo c’erano tre illustri personaggi: un russo noto non per le mongole sembianze ma per le mostrine azzurre;
un Tizio che parlava in un italiano dialettale, tutto d’un pezzo, immobile, serio serio tanto che non doveva aver mai sorriso in vita sua perché i muscoli facciali sembravano bloccati, forse lesi da una vecchia paresi facciale da refrigerazione, e accompagnava il suo dire con scatti improvvisi e ripetitivi tanto che assomigliava a un Robot; poi un Caio, impassibile, compunto, un non-parlatore formidabile nato, che stranamente ricordava uno di quegli addetti alle informazioni che di solito, nel nostro paese, vivono dentro le guardiole all’ingresso delle grandi fabbriche o negli ospedali enormi tipo Rizzoli di Bologna50. I tre interrogarono a lungo il c.b. (ma con un linguaggio più consono al clima distensivo-collaborativo instaurato nel Campo, si dovrebbe dire “colloquiarono”):
“Chi sei? Cosa facevi in Italia? Chi erano i tuoi amici? Cosa possedevi?”
“Beh! Dunque, vediamo un po’”, rispose confuso e perplesso dalle strambe domande il bersagliere prigioniero. “Innanzi tutto sono un ufficiale del Terzo; in Italia frequentavo l’università, poi un giorno mi dissero che volontariamente dovevo venire in Russia a combattere ed ora eccomi qua. Che strana la vita, signori, anzi compagni! Sa gaspadin nacialnik o comandante, fa lo stesso, che l’ultimo esame sostenuto nell’anno accademico ’40/’41 all’università fu proprio Lingua e letteratura russa? Ricordo Puškin, Gogol’, Tolstoj, Le veglie alla fattoria di…”
“Basta, quelle stupidaggini non ci interessano, capito?”, urla il russo dalle mostrine azzurre.
“Rispondi alle nostre domande”, aggiunge l’interprete robotico.
“Hai inteso cosa vuol sapere il compagno commissario?”, grugnisce l’interprete di riserva che accompagna il breve dire con un gesto della mano, tipo ramanzina.
“Va bene! Oh, dico io, che vi ho offesi? Ma che avete fretta, gente?”
“Cosa possedevi in Italia, reazionario fascista? Rispondi, davai bistrà”, ripete il russo e il robot traduttore pure.
“Veramente io non possedevo niente di niente: mio padre stava bene, mi manteneva agli studi, abitavo una bella casa, avevo qualche ragazza come tutti i giovani a vent’anni, poi basta, o almeno così mi pare di ricordare”.
“Isba da?”
“Macché isba, era una casa in muratura, a due piani, con due cessi, e i parquet, insomma i pavimenti in listelli di quercia, anche; da noi in Italia non ci sono le isbe; voi due lo sapete, no?”
“Quali altri beni possedevi, quali?”, insiste il secondo interprete di ricambio.
“Nessuno; non ho niente di mio, sono un nullatenente benestante; ma poi a voi tre cosa interessa sapere ciò che uno possiede? non penserete mica di contare sulla eredità, no?”
“Rispondi alla domanda e non divagare, perché la mia pazienza ha un limite, capito prigioniero?”
“Boh! Posso pensare un attimo alle impensabili proprietà che avevo? Posso?”
“Davai bistrà”, esclamano tutti e tre.
“Certo, ora che mi ricordo, sa cosa potrei dire di possedere? Una bicicletta marca Wolsit, col carter e il fanale, catarifrangente compreso, colore blu scuro, costo Lire 250, bollo da Lire 5, regalatami da mio padre per andare a scuola a Porretta, e poi nient’altro, o almeno così credo”.
“Dacia da? Bicicletta da? Tu capitalist”, esclama il russo dalle mostrine azzurre.
“Borghese e capitalist”, replicano i due interpreti naturalizzati.
“Sarà come dite”, risponde il c.b.; “ora però non ho più niente, niente di niente, volete capirmi o no?”
“Silenzio tu”, esclama serio il capo russo le cui mostrine diventavano sempre più grandi ed azzurre; “tu ora sei nella patria socialista; sei libero e non più succube della propaganda fascista; tu ora devi firmare questo appello, pognimai, capito?”
“Noi dobbiamo dare Trieste alla Iugoslavia e tu devi firmare come già hanno fatto molti tuoi compagni”, aggiunge serio il Tizio robotico.
Quello assomigliante al personaggio della guardiola del Rizzoli, in un italiano strapazzato grida:
“Firma”, e sbatte sul tavolo un foglio di carta scritto fitto fitto.
Il russo, con la mano a sventola come in genere si fa coi ragazzini che hanno commesso una marachella, prosegue:
“Gli italiani coi tedeschi hanno invaso la nostra sorella socialista, la democratica Iugoslavia; ammazzato milioni di nostri fratelli comunisti; distrutto città e paesi e per questo voi dovete riparare, capito bandito fascista invasore? Firma l’appello, capito?”
Il c.b. non capiva più niente. Guardava ora il foglio, ora il russo e i due angeli custodi; spaziava con gli occhi in alto e dintorno e vedeva tutto e niente; pensava agli slavi e a Trieste, ai cinghiali e alle iene, e il pensiero si perdeva nel nulla dell’assurdo e dell’impensabile. Infine, all’improvviso, come ridestandosi da un sogno irreale e senza potersi frenare, sbottò:
“lo non firmo un bel niente; niet, niet firmare, non firmo, capite? Ma piantatela; io sono soltanto un prigioniero di guerra e basta. Ma proprio Trieste volete dare a quelli là? Proprio Trieste che è la nostra più amata città? Ma che scherziamo o siamo matti?”
Era la prima volta che il c.b. colloquiava con la nomenklatura e, non ancora erudito sulle discussioni interrelazionarie, probabilmente si risentì un po’ troppo, soprattutto si meravigliò oltre il necessario. Il russo si alza di scatto dalla sedia, parlotta concitatamente coi due interpreti collaboratori, poi, sbattendo una manata, che par più una badilata, sul tavolo, col dito indice puntato in avanti, urla:
“Tu fascist e reazionario, capitalista e bandito; traduci”.
“Tu eccetera”.
“Tu niet firmare e tu non tornare in Italia. Traduci”.
“Tu non vuoi firmare l’appello e perciò non tornerai in Italia”, dice il robotico.
Il Caio sentenzia, per non essere da meno:
“Fascist caputt, niet firmare niet Italia, capito?”
Lo sguardo del c.b., che fissava a turno quei tre visi quasi uguali, per riposarsi si mise a spaziare per la stanza a 360 gradi. Su una sedia, in un angolo, un bel pezzo di pane faceva bella mostra di sé; su quel tozzo, che in breve era diventato pagnotta, si fermarono gli occhi dell’inquisito che a quella visione dedicò mente, cuore, intelletto, ragione, tutto se stesso. Lunga pausa, poi il russo di nuovo esclama:
“Tu non firmare, da? E tu non tornare in Italia”.
“Non ritornerai a casa tua se non firmerai l’appello”, conclusero all’unisono gli altri due.
“Io non capisco più niente, io ni pognimaio, io non so più cosa pensare e cosa dire; dite voi, fate voi, ma basta!”, sussurra il c.b. continuando con lo sguardo a puntare più quel pezzo di pane che quei tre pezzi di uomini.
“Ci rivedremo presto”, grugnisce il russo.
“Rimpiangerai di non aver firmato”, sogghigna l’interpetre ufficiale.
Quello di riserva ha un solo moto di disprezzo e non dice niente, solo davai bistrà.
Finalmente!
“Das vidania a tutti, arrivederci compagni”, sussurra il c.b. e s’avvia alla porta, seguito da un borbottio incomprensibile ma che richiede un immediato atto scaramantico così in uso, a quei tempi, nelle nostre caserme, oggi giustamente non più consentito.
– Che pretese, che facce toste, che razza di gente! – disse a sé stesso, ma a voce alta, il c.b. uscendo dalla Kommandantura – Pazienza divenire in un solo giorno bandito, invasore, fascista, capitalista, ma anche agente immobiliare di una intera città, questo è troppo anche in Russia! E quante firme sotto quell’assurdo e ridicolo appello! Scossando il duro capoccione s’incammina verso casa, si fa per dire, con la testa in fiamme, il cuore in gola e un travaso di bile dalla cistifellea.
Nel vialetto, che familiarmente i celoviek chiamano “dei passi perduti”, incontra, e non a caso, il colonnello comandante del Terzo, che da tempo aspettava l’uscita dell’insofferente celoviek. Che caro! Oltre alle sue preoccupazioni, e non poche, aggiungeva anche quelle dei suoi ufficiali; per tutti trovava un parola di conforto e una esortazione: ricordati che sei un bersagliere del Terzo.
“Tenente, com’è andato il colloquio? È stato duro?”
“Signor colonnello, quella stanza è una gabbia di matti. Il mongolo dell’Nkvd è un bestione che conosce la sola legge degli umanoidi; due interpreti nostrani, dal viso di terracotta, fanno a gara, per far contento il padrone, a chi mostra la faccia più feroce e beffarda. Che gente! Ma sa, signor colonnello, cosa volevano che firmassi? Pretendevano di farmi sottoscrivere un appello per dare Trieste a Tito, alla Iugoslavia, nient’altro. Soltanto Trieste ai compagni slavi; quisquilie, coserelle da poco; non Forlimpopoli, no, no, proprio Trieste. E quando, seccato, ho risposto loro che non firmavo un bel niente, sa, signor Colonnello, cosa mi hanno risposto? Niente firmare, niente Italia; proprio così. Che vadano all’inferno tutti e tre: russi, mezzi russi e delatori”.
“Tenente, resti per tutta la prigionia, e sempre, solo un ufficiale del Terzo, ma faccia attenzione a gridare dintorno quei giudizi severi, quei pensieri sinceri che spesso rivolge ai nostri padroni, ai lacchè imbroglioni, ai tanti nostri fratelli che già hanno consegnato il cervello all’ammasso. Non dobbiamo arrabbiarci, anche se è doveroso conservare integerrima la nostra dignità di uomini e di soldati; né, almeno fuori del nostro paese, è corretto abiurare al nostro giuramento e ai nostri valori. Rispondiamo loro col silenzio più completo; dove siamo il silenzio è d’oro e rende più di giustificate reazioni. Comunque mi dia la mano, tenente; gliela stringo con affetto e con orgoglio. E non si meravigli se prima o poi le chiederanno di vendere oltre che Trieste, la nostra Italia, il corpo e l’anima, noi stessi. Questo vogliono i russi, i mezzi russi e quei quattro politicanti da strapazzo”.
“Grazie, signor colonnello, cercherò di mettere in pratica i suoi buoni consigli; eviterò di perdere le staffe anche nei momenti più difficili, ma non posso prometterle di stare zitto sempre; quasi sempre sì, ma fino a un certo limite. Mi creda, in alcune situazioni il reagire vince la volontà di tacere. Signor colonnello, la saluto; ora vado a riposare un poco le stanche meningi e per calmarmi canterò a voce alta una delle nostre vecchie canzoni bersaglieresche; fanno sempre bene alla mente e al cuore e ci aiutano a resistere”.
La vita nel lager intanto prosegue seguendo gli stessi ritmi di ieri che sono uguali a quelli di oggi e forse anche di domani e dopo: abulia, fame, indifferenza, noia, preoccupazione costante. Nel frattempo l’educazione e la rieducazione dei prigionieri miglioravano di pari passo e d’intensità, velocemente, nel Campo. Ogni tanto qualche prigioniero partiva improvvisamente per Mosca (Campo 27, sezioni Prima, Seconda, Terza) allo scopo di approfondire e forgiare, in una nota scuola di mistica comunista, le nuove valenze pedagogiche di dottrine depositarie di verità assolute e perenni; altri disgraziati, invece, meno sensibili ai suggerimenti impositivi degli agit-prop, prendevano il treno verso oriente e sparivano nel nulla del niente. Stagno51, Alagiani e altri non si rividero mai più, ma il loro ricordo resterà per tutta la vita nella mente e nel cuore di chi ebbe l’onore e la fortuna di conoscerli. Che uomini, quelli, che eroi, signora Storia!
Le notizie di fatti e capovolgimenti di portata storica, che modificano e rinnovano i destini dei popoli, la vita politica e sociale d’intere nazioni giunsero come fulmini anche nel lager 160 di Suzdal’: il corso della guerra, il 25 luglio, l’8 settembre, le sconfitte dei tedeschi, le vittorie degli Alleati. Tali notizie suscitarono, soprattutto nei prigionieri italiani del Campo, stupore, perplessità, amarezza, gioia, entusiasmo o dolore, ma anche, in tutti, una rinnovata speranza di un prossimo rientro in Patria.
Intanto il secondo inverno bussava alle porte; poi tornarono il freddo e la neve, il gelo e il marosc, e i brevi giorni e le interminabili notti. Arrivarono in quel periodo nuovi prigionieri italiani, i superstiti del campo di Oranki. Che letizia per tutti. Qualcuno rivide dopo tanto tempo amici che riteneva morti o dispersi; molti episodi o fatti che ormai erano caduti nel dimenticatoio tornarono alla mente di molti; parecchi misteri sulla ritirata delle truppe italiane dal Don e sulla fine di nostri reparti trovarono una logica spiegazione. Vecchi prigionieri di Suzdal’ e nuovi arrivati avevano stranamente le stesse facce patibolari e sofferenti; comune anche la stessa magrezza, la cachessia e il colorito smunto; tutti distrofici, senza eccezione alcuna. Patimenti, fame, tifo, angherie di ogni sorta tanto a Suzdal’ che ad Oranki; e quanti morti, quanti ovunque!
Un giorno non propizio il c.b. viene chiamato per un secondo interrogatorio alla Kommandantura, cioè per un colloquio interrelazionario, come s’usa dire, o meglio come c’impongono di dire. Tre gli intervistatori: il solito mongolo con le mostrine azzurre e due gli interpreti che paiono infermieri di grandi ospedali, tipo Roncati e Rizzoli di Bologna.
“Kac dielà sivodnia, tovarisc?” (Come va oggi, compagno?), dice il russo al centro del trio.
“Beh! Sivodnia budiet carasciò” (oggi va bene), bofonchia il c.b. che, visibilmente, non ama colloquiare perché affetto da allergia interrelazionaria progressiva.
Poi il russo si alza dalla sedia, tira un poco indietro il cappello stellato a pensilina, si gratta la fronte, riporta il berretto nella posizione primitiva, altra grattatina alla collottola e inizia un lungo discorso. Alza spesso l’indice della mano destra, meglio lo punta in avanti, e parla, parla. La tonalità della voce passa sovente dal do al sol e viceversa, anche la mimica facciale si adegua al contenuto del discorso o predicozzo, ora cordiale, poi educativo, non di rado comminatorio e da ramanzina.
Il c.b. non afferra l’intero discorso ma intuisce perfettamente il fine cui tende; tuttavia osa dire:
“Ni pognimaio”, non capisco niente, non ho afferrato il discorso, e tenta di prendere tempo per dare una risposta che in realtà si risolve in un semplice sì oppure no (il ma non è previsto).
L’interprete di sinistra traduce, aggiunge un cordiale consiglio personale, termina con una fraterna paternale; poi, con voce un po’ più altezzosa, domanda:
“Allora sì o no?”
Il traduttore silenzioso di destra scuote solo la testa da dritta a manca come per dire: Stai attento, occhio, giovane!
“Veramente”, risponde il c.b. all’italiano assimilato guardando però il russo, “Io sono un ufficiale del Terzo ora prigioniero di guerra ma non mi occupo di politica, d’ideologie, tanto meno desidero andare alla Scuola di Mosca. Se potessi tornerei volentieri in Italia anche per combattere contro i fascisti e i tedeschi che, come voi dite, hanno invaso la mia Patria, però voi certamente mi tratterrete qua; pazienza! Sa, tovarisc, che anche mio padre combatté contro gli austriaci sul Pasubio; che lo zio Dario partecipò, coi bersaglieri, alla grande battaglia del Carso e un altro zio entrò a Trieste liberata con un battaglione di fanti piumati ciclisti? E poi mi creda, nacialnik, quando sono uscito dalla Scuola Ufficiali di Pola, ho giurato fedeltà al Re, all’Italia e al suo legittimo governo. Sono un ufficiale e tale desidero restare, nient’altro. Al rientro in Patria, sciolto quel giuramento fatto, vedrò come comportarmi, deciderò allora, ora no”.
Traduzione telegrafica e riassuntiva della lunga risposta del c.b. da parte dell’interprete di sinistra.
“Basta”, sbotta il russo e con la solita badilata delle mani sul tavolo urla: “Ioptuoi mater, bandito fascista”.
Poi, pensieroso, si mette a camminare avanti e indietro per la stanza sbiascicando frasi incomprensibili. Silenzio di tutti, rotto solo dal tac-tac degli stivali del grassoccio rappresentante enkevediano. Anche il c.b. pensa, ripensa e attende. Borboglio confuso dei tre; esclamazione compiaciuta dei due, il russo e il mezzo russo; il terzo, zitto, non pronuncia sillaba ma sputa per terra:
“Ah! Tu bersagliere, da? Mussolini bersagliere, tu guardia di Mussolini, vero? Tu fascista e bandito, bersagliere fascist”.
Il c.b., che non sopporta insulto alcuno ai fanti piumati, pur tappandosi la bocca con le mani, emette ugualmente un sibilo che, anche tradotto in russo, pressappoco significa questo: Andate all’inferno tutti, maledetti. Io sono soltanto un ufficiale dei bersaglieri, e del Terzo, e tale resto oggi, domani, sempre. Bersaglieri si nasce e bersaglieri si muore. E ora non parlerò più, non dirò altro.
Che disastro! Finito l’animato colloquio improduttivo il celoviek torna dagli amici e alle tante domande risponde a tutti con una frase tolta dal familiare linguaggio di caserma, forse inopportuna:
“Mi hanno rotto le scatole quei tre bei tomi, oggi; le scatole col fiocchetto, maledetti i padri grandi e piccoli, i migliori e i peggiori, all’inferno tutti”.
La solita sfortuna ideologica che perseguita il c.b. anche in questa occasione non è da meno. Infatti, forse a causa della imperfetta chiusura della finestra mal ridotta o della porta sgangherata, la frase irriverente passa in cortile e va oltre.
Che guaio alcuni giorni dopo, che scalogna nera, anzi rossa! Il tempo passa e va; è un giorno qualunque, un pomeriggio di un solito inutile giorno incolore, nebbioso, opaco, fatto apposta per ravvivare la malinconia e la tristezza, i ricordi di tempi felici irrimediabilmente lontani, le persone care sempre presenti nella mente e nel cuore. La fame è la stessa dei giorni sereni, belli o brutti, della notte e del dì, costante, atroce.
Il c.b., cui non difetta l’arte creativa artigianale generica, non specifica, cerca di ingannare il tempo scavando e intarsiando un piccolo parallelepipedo di legno di betulla, legno bianco e molto tenero, per creare un secondo contenitore di tabacco, richiesto da fumatori amici. Intarsia e pensa, pensa e scava. L’attrezzo da lavoro non è un volgare scalpello o una sgorbia ma il lungo e affilato chiodo battuto, ribattuto, limato sulla pietra per mesi, con una punta acuminata da fare invidia a un attrezzo da falegname. Ad ogni minimo rumore sospetto il segreto nascondiglio è pronto a ricevere quell’arma molto pericolosa, sfuggita fino ad oggi alle ricorrenti, numerose perquisizioni dei soldati russi che cercano, invano, di trovare forse le prove di una potenziale sommossa armata o di una rivoluzione ideologica in gestazione. Mah! Non posseggono niente di niente i celoviek; sono stati depredati di tutto; eppure ogni tanto, anzi spesso, debbono sottostare alle meticolose ricerche dei russi controllori che buttano all’aria anche il giaciglio sul quale riposiamo di notte (macché perquisizioni, sono atti lodevoli eseguiti dai nostri fratelli per snidare eventuali pidocchi e cimici e quindi evitarci una nuova epidemia di tifo petecchiale, epidemia trasmessa ai celoviek dalla paglia che gli americani inviarono nei primi mesi del 1943 in Russia per dare un aiuto al popolo lavoratore che combatteva per il mondo intero contro i nazifascisti: così scriverebbe sull’Alba qualche esemplare di convertito proletario se ascoltasse parole di biasimo di qualche reazionario contro le umilianti perquisizioni; quindi meglio star zitti, non brontolare).
La tabacchiera in costruzione servirà a contenere il magorka, il tabacco russo preferito dal popolo lavoratore che ogni tanto si riesce a reperire o acquistare dai non fumatori e per un pezzetto di pane. Che prezzo, incalliti drogati; quanto costa il vizio! Tale tabacco è un miscuglio di foglie e di gambi della pianta non conciati, ma seccati al sole e poi tritati col coltello. Per fortuna che in questo immenso paese le sigarette non si fanno con le velate cartine in uso in Italia perché, se così fosse, sarebbe un’impresa impossibile incartare quella dura minuzzaglia con siffatta, delicata carta nostrana. Qua le sigarette, prigionieri e non, le producono avvolgendo quel tipo di tabacco in pezzetti di carta di giornale, Pravda o Isvestia fa lo stesso; carta robusta e spessa che una volta accesa brucia in compagnia del magorka come un falò di Natale e con un fumo da ciminiera d’alto forno. Che apparato respiratorio, gente, quello dei sopravvissuti alla morìa tifoidea! Tuttavia anche nel lager le necessità (meglio: i piaceri voluttuari della vita terrena) lentamente, purtroppo, ma inesorabilmente si evolvono verso il meglio. Infatti il magorka ha sostituito prima le foglie secche di betulle, poi quelle più profumante di alcuni ciliegi selvatici che crescono nel Campo e sta già spianando la strada alle mezze sigarette russe dei compagni privilegiati. Mezze sigarette perché opportunamente metà piene di tabacco conciato e metà vuote, cioè col solo cartoncino che permette di fumare anche indossando i grossi guantoni, evitando nel contempo che si possano bruciacchiare o il congelamento delle dita nel caso che si fosse costretti a toglierli durante il soddisfacimento di quel bisogno voluttuario e di conforto che è il fumo.
Attorno al c.b. alcuni amici discutono di fatti passati e fanno pronostici inutili per l’avvenire; altri si raccontano scene lontane di pranzi luculliani, di sontuose cene, di piatti prelibati; spesso di sbafate nate più dalla fantasia famelica che da orge mangerecce. Qualcuno, più previdente, cerca invece di porre ripari occasionali e casalinghi a qualche indumento che oramai è al limite della sopravvivenza. Un fervore di opere, di pensieri, soprattutto di ricordi, e il tempo fuori dal tempo trascorre anche così.
All’improvviso, come s’usa in questo luogo di rieducazione, un pedatone che sembra un colpo di tromba d’aria spalanca la sgangherata porta. Cessano, come d’incanto, il vocio, il brusio, le opere occupazionali e spariscono attrezzi di fortuna o pericolosi. I celoviek, in piedi e con le facce rivolte verso la porta e lo sguardo all’insù per non incrociarne altri, trattengono il fiato in attesa di conoscere il motivo di quell’annuncio non certo piacevole.
S’affaccia un soldato russo; ha gli stivali neri con larghe chiazze giallastre sparse un po’ dovunque per la mota o il fango calpestati in cortile; brache tinta kaki alla cavallerizza; casacca a collo nella stessa tinta con cinturone nero attorno alla vita; solito cappellone con stella a cinque punte e visiera tipo pensilina ferroviaria; non ha le mostrine azzurre e pertanto suscita più fastidio che apprensione. Porta in mano un foglietto ma non legge; lo porge al celoviek più vicino e con voce adatta al compito e all’occasione, urla:
“Davai bistrà, Kommandantura, davai, davai”.
Un secondo similare soggetto, di rincalzo, passeggia su e giù davanti alla stanza e, per non essere da meno, grida anche lui:
“Davai, davai bistrà”.
Non ha le mostrine azzurre. Sul pezzetto di carta c’è scritto, non in cirillico ma in stampatello, un cognome; caso strano proprio il cognome del c.b. sfortunato.
“Ma cosa vogliono ancora da me”, brontola il convocato mentre si avvia lentamente verso gli ambasciatori.
Inutile chiedere il motivo della improvvisa chiamata perché il ritornello è sempre lo stesso: Nis naio, davai bistrà. Mah! Che strano mondo questo paese socialista dove regnano sovrane la democrazia e la libertà! – Che sia giunto dalla Croce Rossa Internazionale un pacco per me? – pensa il c.b. per farsi coraggio; – No, no, non è possibile; non sono mai arrivate lettere, cartoline, nessuna notizia; quindi figuriamoci se può arrivare addirittura un pacco. Che vogliano ripropormi di frequentare la scuola al Campo 27 di Mosca o, più probabile, di sottoscrivere un nuovo appello, magari per dare questa volta Gorizia agli Slavi, visto che non ho voluto dar loro, come riparazione, Trieste? Tutt’al più, come ripiego, posso proporgli di cedere Briga e Tenda, tanto quei paesi se li riprendono i francesi, ma non altro. Speriamo comunque che questi figli di Popòv, magari con l’aiuto degli americani, non abbiano inventato una macchina che, oltre a decifrare i codici segreti, legga pure i pensieri della gente; vi immaginate, popolo, che disastro?
Queste sciocche ipotesi rallentano involontariamente l’incedere del c.b. ma un “davai bistrà”, seguito da una spintarella data dal russo che segue sulla spalla destra del bersagliere che lentamente avanza e quasi, senza volerlo, va a sbattere sul russo che guida la fila, cioè che precede, il quale, senza voltarsi e scomporsi urla solo “ioptuoi mater”, ravvivano prontamente la velocità della marcia di avvicinamento alla Kommandantura.
Il Comando è sito vicino al voltone d’ingresso, sotto il torrione che svetta dalle alte mura che cingono l’intero lager. Solita stanza semibuia e disadorna, squallido ambiente, stesso tavolo rosso al centro con tre sedie ai lati. Ritti in piedi, rigidi come le statue dello Stadio dei Marmi52, tre noti personaggi: al centro il tovarisc nacialnik dalle mostrine azzurre, il compagno signore; a destra l’interprete nostrano dello zoccolo duro che, oltre a tradurre, elargisce consigli e pareri non richiesti; a sinistra l’interprete di riserva che non parla mai, o quasi, ma che segue ogni frase guardando in alto e di sbieco, esternando i suoi commenti più con gesti delle mani che con la bocca da forno.
Ci risiamo – pensa tra sé il c.b. mentre saluta molto distintamente:
“Drastvice nacialnik (salve comandante), buona sera anche a voi; kac dielà sivodnia? (Come va oggi?) Carasciò? (Bene?)”
Silenzio; nessuna risposta, solo sguardi severi.
“Alla faccia della stupida educazione impartita dalla scuola tradizionale e borghese e segno inconfondibile che stanno per iniziare i soliti colloqui interrelazionari democratici”, mastica fra le labbra il celoviek convocato.
“Cosa hai detto?”, chiede il connazionale duro.
“Niente di importante; considerazioni personali sulla programmazione collettiva, niente altro”.
“Come ti chiami? Cosa facevi in Italia?”, grugnisce il russo, e continua: “Tu qui parlare male del popolo sovietico, dei tuoi fratelli comunisti fuoriusciti, dei tuoi compagni prigionieri andati alla scuola, di tutti, insomma, da? Tu non firmato appello per dare Trieste al compagno Tito; tu non volere andare a Mosca; tu ancora fascista e reazionario, da?”
“Mah! Se lo dice lei”, risponde il c.b., “sarà. Comunque per farla breve, mi ascolti signor tovarisc o nacialnik: io non so più cosa pensare o dire. Dica lei, faccia lei, tanto se dico che non è vero, voi invece dite ch’è vero e che non è vero che vero non è, o pressappoco; non debbo pensare ciò che penso ma quello che pensate voi, e allora cosa devo rispondere? Ma lei, signor interprete principale, quando traduce, riferisce giusto? Non potrebbe darsi il caso che traduca una parola e quello ne capisca un’altra? Io non riesco a comprendere ciò che voi volete da me, a cosa mirate. Ebbene, io sono soltanto un ufficiale del Terzo e basta. Capito?”
Il russo nel frattempo leva dalla tasca dei pantaloni, con la mano sinistra, uno spiegazzato foglietto, lo poggia sul tavolo e con le nocche della mano destra tamburella sulla carta per un po’; contemporaneamente scossa dall’alto in basso, per conferma, il grosso capoccione ricoperto dal cappello con visiera a pensilina e lo stellone rosso, e infine, col dito indice destro puntato verso il celoviek, sbotta:
“Da, da, tu fascista e reazionario, bandito, capitalista”.
L’interprete prende a sua volta il foglio di appunti e sentenzia:
“Casa, bicicletta, università, ufficiale, guardia di Mussolini e fascista. Bene!”.
Il c.b. non ha il tempo di rispondere perché il russo, sempre col ditone puntato, ricomincia:
“Cos’altro possiedi, rispondi, altrimenti ci penso io; davai bistrà”.
“Ora penso, poi se ricordo, parlo”, sussurra calmo il c.b. e prende tempo.
Lo sguardo, nel pensare a niente, spazia per l’intera stanza e si fissa nell’angolo destro dove, così gli par di ricordare, durante l’ultimo colloquio aveva notato su una sedia un bel pezzo di pane. – A guardarlo, quel tocco agognato e dorato, dava sostegno e fiducia; inoltre serviva a placare la rabbia, l’ira, il risentimento, tutto, ma stavolta non c’è e allora se non parlo, che guardo? -, pensa il c.b. avvilito. – La faccia del russo? Per l’amor di Dio, meglio vederla il meno possibile. Quella dell’interprete principale? No, no, lasciam perdere e non ne parliamo nemmeno. L’altra? Viva Zapata, meglio un pugno in un occhio. Evviva, ci siamo:
“Sa cosa possedevo anche nacialnik? Ero proprietario di tre paia di scarpe: un paio per l’inverno, belle, alte, con la scanalatura nel tacco dove si adattava il mollettone dell’attacco degli sci; impermeabili anche e con la linguetta saldata alla tomaia; poi quelle basse per le feste grosse tipo Natale, Pasqua, le feste religiose e le domeniche; nere, lucide, di vera pelle di vitello, coi laccetti e la punta orlata, bellissime; infine quelle per tutti i giorni, scarpette da due soldi, o scarpacce, ma sempre decenti”.
“Scolki valenki?”, chiede, forse meravigliato, l’enkevediano inquisitore.
“Niente valenki, tovarisc; in Italia i valenki non si usano, non servono; solo scarpe si calzano, ma lei intendeva chiedere quante scarpe? Sì? Beh! Io possedevo tre paia di scarpe, ma non tre scarpe; oppure se vuole, posso dire sei scarpe; sì, in realtà sono sei ma sono anche tre paia, non le pare?”
“Cos’altro possiedi?”, taglia corto l’interprete ufficiale; “rispondi.”
“Non saprei proprio cos’altro aggiungere”, dice il celoviek; “Veramente in casa c’erano mille cose e varie cianfrusaglie, però eran tutte proprietà dei miei genitori, mica mie. Ora non ricordo altro, ma poi, a pensarci bene, mica ho preso in Russia l’inventario dei beni di famiglia; ma che scherziamo o volete prendermi in giro davvero? E infine, che v’importa o perché volete sapere se un prigioniero possedeva la vacca, la sega, la carriola, una palla, due palle e…”
“Silenzio”, sbraita il nacialnik.
“Ricorda e parla”, aggiunge il compaesano traduttore.
Il terzo tace, sogghigna e fa un gesto con la mano destra messa a taglio che assomiglia stranamente a quel parlare manuale che usava mio padre quando, dopo una marachella, intendeva dirmi: Ora te le do io!
“Comunque ci ripenso, poi, se ricordo, parlo; va bene così?”, borbotta spazientito il c.b. e si mette a pensare.
“Allora?”
“No, non possiedo altro, non mi viene in mente altro”.
“Sicuro?”
“Sì, sicuro, quasi”.
I tre bisbigliano fra loro fitto fitto qualcosa, però mi par di capire che sono certi che io voglia fare il furbo e che intendono darmi una punizione esemplare. Robe da non credersi; cose da matti interrogare un poveretto per sapere certe stupidaggini che fan ridere i polli; ma se quelli si arrabbiano davvero, che faccio io povero celoviek? Mi appello alla Convenzione di Ginevra? Al Vaticano o alla Società delle Nazioni? Se conoscessi Ras Tafari, che è un influente rappresentante dei branchi e delle tribù, potrei chiedergli un piccolo aiuto e son certo che questi signori, molto affini, lo ascolterebbero, ma l’ho sentito solo nominare, quindi serve a poco. Inoltre, se non fosse così occupato com’è ad assimilare l’ideologia marxista e proletaria, potrei chiedere a Montanari53 d’intercedere per me; ma quello come fa a trovare il tempo per pensare ad altro? Inoltre, pervaso fino all’orlo da quel nuovo credo, non credo che creda a me quando gli chiedo di credermi; non ha più un solo neurone in testa disponibile a credere in qualcosa di altro al di fuori del Credo. Niente da fare!
“Dunque, cioè, sì, sì, sa nacialnik cosa possiedo ancora? Gli sci, e sono proprio miei; la radio invece appartiene a mio padre, alla famiglia per dire il vero; poi nient’altro. Per l’esattezza gli sci me li regalò lo zio, capocentrale alla diga di Pavana. Sa, le Ferrovie dello Stato, in Italia, danno gli sci nuovi di zecca a tutti i ferrovieri della centrale perché se durante l’inverno cadesse una grande nevicata, loro, i guardiani dell’impianto, potrebbero andare in servizio anche con un metro di neve, o circa, probabilmente. Non è organizzazione questa, compagni? Lo zio me li regalò quando mi diplomai; e che regalo fu, gente! Sappia, comandante, che al mio paese gli sci fatti con quel legno proveniente dalla Svezia, che per la verità a me è sempre parso frassino nostrano, e con quegli attacchi speciali, li possiedono in pochi. È un lusso che soltanto alcuni privilegiati si possono permettere. Mio padre stesso me li aveva sempre promessi ma ogni anno, e ad ogni promozione a scuola, rimandava l’acquisto, e per motivi vari, all’anno dopo, cioè all’anno di poi. Al mio paesello tutti i ragazzi sciano, ma gli sci ognuno se li costruisce come meglio può: i più giovani comprano dal falegname due tavole larghe sei e sette centimetri, lunghe un metro e mezzo, poi le smussano ad una estremità con l’ascia e così nascono gli sci, ma non sono ricurvi in punta come quelli dei ferrovieri che, tra l’altro, hanno anche la scanalatura sul fondo che scivola sulla neve per meglio tenere la direzione ed eseguire a regola d’arte lo spazzaneve, il cristiania e il telemark54. Lei nacialnik conosce il telemark? No? Ebbene, fa lo stesso, io sì. I più grandi, invece, i giovani se li fanno costruire dal falegname ma costano cari e, se per caso si rompono, meglio mettere il cuore in pace per un anno o due. Inoltre gli attacchi degli sci fatti in casa sono semplici e poco affidabili; consistono in una striscia di cuoio larga circa cinque centimetri, ricurva, inchiodata ai due bordi dello sci, dentro la quale s’infila la punta dello scarpone. Dalla striscia di cuoio, ai lati, partono due cinghiette che cingono la tomaia e bloccano, si fa per dire, la calzatura alla tavoletta chiamata sci. Quelli dei ferrovieri, invece, erano attacchi speciali, sinceramente; l’ultimo grido della tecnica, mi creda, veramente. Due ganasce in ferro, regolabili in larghezza e con ai lati delle alette semicircolari che poggiavano sui labbri delle tomaie, bloccavano in maniera egregia la punta dello scarpone al piano dello sci; inoltre una cinghia di cuoio con un mollettone di ferro, completo di leva per allungarne o ridurne la lunghezza, quindi adattabile ad ogni misura di scarpa, attanagliava lo scarpone tenendolo ben saldo sul piano del legno. Tale attacco era fissato alle ganasce con due ganci facilmente innestabili o smontabili. Che magnificenza! Detto fra noi, lo zio me li aveva regalati anche perché in tant’anni mai li aveva messi ai piedi. E poi sono anche certo che non sapesse sciare affatto; mai l’avevo visto sciare da quando lo conoscevo per zio. Diceva sempre il vecchio bersagliere, e ad ogni opportuna occasione, che era un provetto sciatore al pari dell’amico Trombino; che aveva partecipato, in rappresentanza della Centrale, ad ogni sorta di gare provinciali o nazionali promosse dal Dopolavoro ferroviario (anzi, meglio: dopo il lavoro ferroviario), ma nessuno di noi parenti gli aveva creduto troppo,…
“Basta!”, gridò il russo dalle mostrine azzurre, alzandosi in piedi; “Cos’altro possiedi?”
“Digli che altri beni possiedi”, aggiunse l’oriundo nostrano dalla faccia di terracotta; “e non fare il furbo perché la pazienza ha un limite, capito?”
Il terzo vice annota ma non proferisce parola; mugugna.
“Possiedo la radio; radio, pognimai?”
“Chi ti ha dato la radio, chi? Te l’ha data il partito per fare propaganda, da?”, urla il russo.
“Te l’ha data certamente l’Ovra55 ”, aggiunge il fuoriuscito.
“Chi?”
“La polizia politica, l’Ovra”, ribatte.
“Io gente, l’Ovra non l’ho mai sentita nominare, non so nemmeno cos’è; io conosco la piovra, la prova, ma non l’Ovra; mai sentita né vista la vostra Ovra, lo giuro”.
“Tu avuto radio da partito, da Mussolini, da fascisti”, sostiene il nacialnik.
“Macché partito e partiti; la radio l’acquistò mio padre, e la pagò salata anche, mi pare nel 1936, quando c’era la guerra in Africa, altro che partito”.
“Guerra eh; altra guerra fascista e imperialista; guerra colonialista da, e dove?”, borbotta sbuffando e beffardo il russo.
“Ma santo Iddio, in Africa o giù di là; la guerra in Abissinia e dintorni; lo sanno tutti, no?”
“Ah! Italianski sempre imperialisti e colonialisti; tu possedere radio fascista e colonialista, da?”
“Ma no, tovarisc; non è una radio colonialista, no, no; è semplicemente una radio Phonola, capito? O meglio, un apparecchio marca Fonola, perché in Italia ph si legge f, Fonola, radio Fonola, cinque valvole, mobile in legno, disegno traforato e in stoffa, due manopole: una per cercare le varie stazioni trasmittenti, l’altra per il volume. Bellissimo apparecchio; ultimo grido, caro, però. Mi crede almeno lei, interprete, che ha detto di essere italiano come me? Oppure lo era? Che invenzione, la radio, gente! Che testa quel Marconi che l’aveva inventata!”
Il russo sta per esplodere; ha le giugulari gonfie come l’aorta; gli occhi, iniettati di sangue, paiono quelli di un ranocchio ipertiroideo; i globuli rossi sono verdognoli per un improvviso travaso di bile. Alzandosi in piedi, con l’indice puntato come un fucile, urla in faccia al celoviek:
“Chi Macconi? Tu detto Macconi? Niet Macconi per radio; Macconi ladro e fascist, capito? Popòv fatto radio, Macconi rubato. Propaganda fascista dire che Macconi inventato radio ma noi sapere per certo che è stato il compagno scienziato Popòv a fare la radio, capito? Tu celoviek non conoscere il tovarisc Popòv? No?”
“Oh signor nacialnik, io sarò ignorante ma non conosco proprio questo signor Popòv; io non so nemmeno chi sia o cosa faccia, mi creda”.
“Bugiardo fascista, impossibile non conoscere Popòv”.
“Ma come ve lo debbo dire, io non capisco più niente!”, disse il c.b. con voce flebile e con gli occhi sgranati all’interprete nostrano, che, anche lui, conosceva molto bene il Popòv.
“Ma poi che c’entra la radio colonialista se il mio apparecchio è un Phonola; che significa mescolare Marconi coi ladri; ma chi è questo Popòv o Popò? Non capite che…”
“Alt, basta, sporco fascista provocatore”, ghigna il russo. “Tu non capire eh? Tu far conto di non capire; tu conoscere il tovarisc Popòv ma tu ancora succube di propaganda capitalista e imperialista, da?”
“Tu ci marci, compagno; tu vuoi farci credere che non conosci il Popòv, che non hai mai sentito parlare delle sue invenzioni mentre qua in Russia anche i malenki (ragazzini) conoscono lo scienziato Popòv che ha scoperto tutto”, controbatte grave e serio l’interprete compaesano, mentre quello di riserva si limita a sbatacchiare la mano destra a taglio come per dire: Te le do io, bugiardo!
“Veramente, compagni, io conosco la parola popò che, nel mio paese, per esprimerla, si completa con l’articolo la, cioè la popò e non il popò; insomma cambia l’articolo, il genere ma sempre popò è. E la popò non è un nome proprio di persona ma un comune nome di cosa, non le sembra anche a lei che conosce un po’ di lingua italiana? Che forse è nato a Montilocchi e usa solo il dialetto per esprimersi? E inoltre non mi chieda altre spiegazioni in merito perché… perché… Beh lasciam perdere che è meglio. Comunque se vi fa proprio piacere posso dire: viva il popò e non la popò; va bene?”
Il russo capisce che qualche sottile malinteso o sostanziale differenza d’interpretazione del vocabolo o del genere in discussione è sorto tra me e il suo fedele collaboratore e subito, col solito ditone puntato, interviene:
“Tu non conoscere il Popòv allora, è cosi?”
E l’interprete a ruota:
“Perché tu dici la popò e non il Popòv?”
“Perché… perché… Ma via signor compaesano, lasciam ben perdere; lo sa anche lei che da noi si chiama la popò quella certa cosa che si chiama popò, cioè quel vezzeggiativo delicato che si usa nel parlare coi bimbi che… Insomma, mica sta bene dir loro la cacca, o peggio, non le pare? In Italia la popò è solo la popò e non il popò; e basta”.
“Cosa essere in Italia la popò e la caca?”, chiede curioso il mongolo dalle mostrine azzurre.
“Senti, bersagliere fascista; ascoltami bene celoviek reazionario”, urla arrabbiato l’interprete; “Io che son nato in Italia non so cosa significhino la popò e la caca, o cacca, o ciò che tu dici; io conosco solo il Popòv, così come tutti i malenki, i bambini, lo conoscono perché è l’inventore di tutto, un eroe del lavoro delle repubbliche socialiste. Tu, invece, non lo conosci; tu non sai niente. Tu vuoi prenderci in giro; vuoi fare il furbo, no?”
Il sostituto interprete non muove ciglia, né bocca, né dice niente di niente; qualche volta sbuffa o sputa per terra, o guarda in su. E così provo a chiedergli:
“Ma lei, vice, non si pronuncia? Ha capito cosa intendo dire?”
“Nisnaio”, borbotta e torna a guardare di sbieco me e il basso soffitto.
“Ma mondaccio proletariato di massa, io non vi riesco a capire; io non ci capisco più niente, io non so più cosa pensare o cosa volete da me”, sussurra sconsolato il celoviek inquisito; “Devo sapere quello che non so; ciò che so non devo saperlo; devo conoscere il popò che non so chi sia e non conoscere la popò che so cos’è; la popò non devo chiamarla la popò ma il popò. Vi ho pure detto che in Italia la popò si chiama anche cacca e voi, italiani e russo, mi rispondete di non conoscere cosa siano la popò e la cacca. Oh! Ma che volete prendermi in giro o fate di tutto per farmi arrabbiare e poi denunciarmi per offesa a un pubblico ufficiale e a due facenti funzioni? È così? Allora parlo, ma siete voi che mi avete costretto. Ebbene la popò, la caca o la cacca sono soltanto i resti della defecazio; sapete almeno cos’è la defecazio? No? Non conoscete nemmeno il proverbio che ricorda ai mortali alcune regole di farmacopea popolare, cioè: defecazio mattutina buona tam quam medicina; defecazio meridiana neque buona neque sana; defecazio prigioniera o si spara oppur si spera, con più sforzi prolungati o con getti sparpagliati, verso sera? Avete capito, ora? No? Non ancora? Eh, ma allora siete duri, siete proprio stranieri, gente! Comunque la popò, la cacca o la caca, la defecazio è soltanto merda, sempre merda, ovunque merda; la merda, capito ora? E lei interprete traduca, così anche quello capirà una volta per tutte. Mi sono spiegato bene ora? Sono stato chiaro?”
Traduzione telegrafica, spicciola, suadente. Apriti cielo, numi aiutatemi, attenti al botto.
“Ioptuoi mater, invasore fascista, bandito colonialista, celoviek, ecc. ecc.”, sogghigna il russo.
“Capitalista e borghese, guardia di Mussolini”, aggiunge l’interprete.
L’altro, il semimuto, fa un solo cenno di disgusto con la mano, sputa per terra tre volte e riprende a guardare il soffitto senza aggiungere un verbo, né un aggettivo, niente di niente.
Dieci minuti di pausa. Breve uscita del nacialnik e del primo interprete; il sostituto resta col c.b. che, più smarrito che impaurito, si guarda attorno perplesso pensando al tavolaccio della prigione, ora peraltro occupato da tre cari amici.
Rientro dei due inquisitori autodefinitisi intervistatori; il colloquio riprende senza condanne preliminari enunciate (ipotizzate senza dubbio) e in tono dimesso come se nulla fosse successo.
“Allora cos’altro possiedi, bersagliere di Mussolini?”
“Niente, certamente null’altro; al momento non ricordo altri possedimenti, lo giuro”.
“Benissimo! Allora passiamo alla seconda domanda: devi dirmi i nomi dei tuoi più cari amici, quelli veri, dove risiedono in Italia, che attività svolgono, l’indirizzo insomma e completo, senza sbagli. Capito, celoviek?”, chiede il mongolo russo.
“Di amici ne avrai in Italia e a Suzdal’ o ti sei dimenticato anche di loro?”, aggiunge serio il robotico assistente.
“O questa è bella davvero!”, risponde il c.b. che non riesce affatto a nascondere lo stupore e francamente dubita di essere sveglio e coi piedi in terra; “Volete sapere i nomi dei miei amici, cioè addirittura l’indirizzo? Ma certo signori, anzi compagni tovarisc, certo; ora ci penso, scelgo i migliori e poi risponderò senza remora alcuna; va bene?”
Ma il povero bersagliere non pensava agli amici; no, no, cercava di capire per quale scopo volessero sapere certe notizie che a prima vista parevano insignificanti; notizie senza senso o importanza alcuna, ma… però… perché… qua mi fregano gente! Passi pure per i beni posseduti, odiano a morte i capitalisti borghesi e, forse, per invidia, visto che in questo paese nessuno possiede niente, tranne la nomenklatura che ha invece tutto ciò che desidera, si dilettano ad ascoltare l’elenco di ciò che gli altri posseggono e che loro mai potranno avere; sorvoliamo sulla radio che il partito regala per fare propaganda; sulla bicicletta che per questa povera gente è un desiderio insoddisfatto, inappagabile; ma gli amici che c’entrano? Addirittura vogliono conoscere l’indirizzo, che mestiere fanno, dove ora si trovano. E no! Qui gatta ci cova; occhio bersagliere, c’è sotto qualcosa che non convince affatto; qualche fine d’impensabile oggi, ma domani, nel tempo lo avranno pure. E no; coi crauti che rispondo; uno scopo, se vogliono sapere queste notizie, lo hanno certamente, e poiché sono slavi e non affatto cretini (anzi, primordialmente furbi), intendono perseguirlo con ogni mezzo e con qualsiasi arte. Questo è poco ma sicuro. Sopporto le strambe e maniacali domande sui possedimenti, ma questa sugli amici non mi va. La guerra oggi, la rivoluzione domani, la liberazione poi, il potere agli operai e ai contadini, i tribunali del popolo e le commissioni di epurazione, la Scuola 27 a Mosca, i partiti fratelli, le purghe e le riparazioni, il terrore e soprattutto mors tua vita mea; no, no niente da fare. Fatti furbo, bersagliere o caschi nel paciugo.
“Dunque, nacialnik, prima di rispondere alla sua domanda vorrei dirle cosa possiedo ancora e che onestamente avevo dimenticato. Le interessa ancora?”
“Sì, davai bistrà”.
“Non è mia proprietà diretta, ma forse per eredità sì. La ditta di mio padre e fratelli è proprietaria di un camioncino, un Fiat 509, e di un calesse trainato da un cavallo che si chiama Morino”.
Il russo annota, guarda l’assistente interprete e poi trionfante esclama:
“Ditta, da? Sfruttatori del popolo, da? Ditta che lavora per guerra imperialista; guerrafondai, da?”
“Ma no! Non scherziamo; non lavora per la guerra, produce solo salami, prosciutti e salsicce; niente cannoni o munizioni, niente bombe, solo salumi, capito tovarisc? A proposito del camioncino ricordo che un giorno io e i miei cugini salimmo in cabina e combinammo un bel guaio. Il Fiat 509 era un miracolo della tecnica automobilistica nostrana e dello stile italiano. Che linea aerodinamica anche per quei tempi, che bolide era! Quando transitava sulla strada statale 64, strada allora lastricata col manto di breccia colombina, un po’ di stabilizzato e tanta polvere, e non col bitume, o asfalto, come si usa oggi, si pavoneggiava come un damerino. Altro che l’OM di Diego Cerruti o l’autocarro SPA di Leo Vistalunga…”
Il russo tamburella con le nocche delle dita della mano sinistra sul tavolo; quella destra sostiene il grosso capoccione ricoperto con il grande cappello dalla lucida, ampia visiera tipo pensilina, ornato con lo stellone rosso a cinque punte. Le palle degli occhi sono quasi tutte bianche poiché le pupille nere si scorgono appena; sembrano un quarto di luna calante puntate come sono verso l’alto. O sta pensando di mandarmi all’inferno o è intento ad invocare il piccolo Padre per non scoppiare dalla repressa rabbia che tutto lo pervade. L’interprete nostrano continua a fissarmi senza dir niente; giocherella con un piede colpito da un tic-tac nervoso mentre le sue mani si stropicciano in continuazione l’una con l’altra. Il terzo osservatore, quello che non dice mai niente, o quasi – eccezionalmente brevi, anzi telegrafiche, mimiche sentenze e poi altro – fa conto di leggere uno spiegazzato foglietto pieno zeppo di appunti, ma il suo sguardo, anche nell’incerta luce, si vede bene che è fissato su di me. Il mezzo sorriso poi che gli incornicia la bocca è un ghigno confuso tra lo scherno, il compatimento, l’odio; il tutto condito con un trabocco di rabbia e di fiele. Pazienza, è la vita!
“Signor nacialnik, vuol sapere qualcosa di Morino, il cavallo baio che tante volte ho governato e spesso guidato sotto la vigilanza dello zio Enrico che, sordo com’era, mi aveva affidato il compito di avvertirlo di eventuali rumori di motori in avvicinamento i quali, non raramente, mettevano in crisi il nostro quadrupede? Posso raccontarle alcune notizie di quel caro, fedele amico mio?”
“Basta”, in russo!
“Basta” in italiano!
Breve cenno del logopatico con la mano per dire: Vai all’inferno. Qualche minuto di silenzio, poi:
“Bicicletta, da? Dacia, isba, casa, da? Radio colonialist, da? Tu reazionario e fascista, tu bersagliere guardia di Mussolini, tu bandito e invasore, ioptuoi mat”.
“Beh! Se lo dite voi sarà così”, rispose il c.b. serenamente, memore dei consigli del colonnello Longo; “Ora però si dà il caso che io non possegga più nulla e che sia meno di niente; questo è certo. D’altronde anche in questo strano paese niente più niente fa niente, meno niente è uguale a niente, oppure in Russia anche l’aritmetica è una semplice opinione?”
Silenzio sconcertante; pensieri diversi turbinano sicuramente nelle teste di tutti noi tranne che in quella del terzo interprete, perché nella sua mente non turbina nulla; lui è dello zoccolo duro e quindi non può pensare, lui agisce soltanto secondo il volere di Stalin e del partito e basta, quindi via le scorie sempre ingombranti. Sto scervellandomi in questi brevi attimi di apparente bonaccia nel cercare di individuare perché questi illustri tomi vogliono conoscere certe coserelle che nel nostro autoritario e imperialista paese non interesserebbero nemmeno alle donnicciole o addirittura alle lavandaie che sciacquano i panni nel pozzo e contemporaneamente tagliano le trine addosso alle comari dell’intero paese e anche un poco più in là. Il russo forse sta combattendo una terribile lotta neuronica indeciso tra il desiderio di prendermi a pedate e la voglia matta di mandarmi in Siberia. L’interprete compaesano pensa certamente alla lotta di liberazione che tra poco porterà anche in Italia il paradiso comunista e la democrazia popolare o al modo migliore per convincere molti prigionieri, in special modo quelli ritenuti duri, ad andare alla Scuola di mistica al Campo 27 di Mosca per essere educati in via definitiva al credo marxista-leninista e quindi plasmati, fusi in ottimi elementi da inserire nella sorgente nomenklatura italiana, previo naturalmente il giuramento solenne al nuovo ordine comunista e agli ordini, indiscutibili e immodificabili nel tempo e nello spazio, dell’Nkvd, la onnipotente e onnipresente polizia politica. Il vice interprete (meglio: la cellula politica) ascolta, annota, riferisce, esegue ma non può pensare, perché ciò è compito d’altri; pare proprio un Robot programmato, o caricato.
Un pugno, una mazzata sul tavolo del russo con le mostrine azzurre, squassa il momentaneo silenzio; l’enkevediano inquisitore si alza in piedi, punta il dito verso di me (qua tutti puntano, dev’essere un’abitudine politico-genetica) e con voce alterata chiede:
“Chi sono i tuoi amici, che mestiere fanno, dove si trovano ora, qual è il loro indirizzo?”
Anche i due angeli proletari si alzano in piedi; il traduttore mi ripete con voce roca ciò che il nacialnik ha chiesto, e, col ditone puntato, aggiunge:
“Parla, fascista, altrimenti niente Italia, Siberia sì”.
“Va bene, ho capito, ora ci penso poi rispondo”, replica confuso il c.b. che non sa a che santo appellarsi per dire qualcosa tanto per dire.
– Ma guarda in che paciugo sono cascato – pensa il povero celoviek stringendo le labbra per non emettere una delle pericolose espressioni dialettali toscane; – ora che faccio? Se non rispondo sono fregato; se rispondo rifregato, e allora? Belle prospettive, mondo cane e progressista! Mah! Io mi affido alla immaginazione e alla fantasia; sì, immagino, però se l’immaginifico travalica certi limiti e appare evidente che è fiaba, che succederà poi? D’altro canto non è mica così semplice, boia di un Peppe, indovinare tout court nomi fasulli, cognomi strampalati, paesi inesistenti o strade ancora da costruire, amici sognati e in quattro e quattr’otto senza correre il rischio di citarne dei veri o peggio ancora far capire a questi bestioni vichiani che sto spudoratamente bluffando.
Non credete sia difficile questo giochetto? No? Allora provateci e ve ne accorgerete; vi renderete conto che è più facile dirlo che farlo!
“Ah! Signor nacialnik, ora comincio coi nomi degli amici più cari, però mi lasci un po’ di tempo per scegliere, tra tanti, i più cari. D’accordo?”
Mentalmente escludo con forza e per serie ragioni comprensibili anche a coloro che leggeranno queste stupide, incredibili miserie umane, i nomi e i cognomi degli amici, non dei colleghi, degli amici veri, i quasi fratelli conviventi con me nel lager enkevediano di Suzdal’; non farò ricorso, per imbrogliare il prossimo, ai nomi originati dalle serie dei numeri pari o dispari perché al mio paese, dove le famiglie in genere hanno molti figli, i Primo, Terzo, Quinto, Sesto, Settimo, Ottavio e Decimo sono nomi che si sciupano tanti ce ne sono in giro e molti cari amici si chiamano proprio così. Lascerò perdere, altresì, di far ricorso a nomi che ricordano i santi del calendario perché da noi la gente è cattolica praticante ed in ogni casa un santo o due, con una santa pure, s’incontrano certamente nelle vesti del primogenito o nei panni di quel bambinello nato in quel giorno del santo protettore venerato: Antonio, Francesco, Giovanni, Marco, Luca, Tommaso e Matteo; nonché le varie: Maria, Anna, Annunziata, Teresa, Lucia e Maddalena. Ricordando questi nomi, un vicino o lontano parente, un familiare pure, un caro amico anche, entrerebbero senza scampo nella lista che questi demoproletari stanno per approntare. Meglio, quindi, ignorare numeri e santi, non si sa mai! Ma boia di un orso cane, guarda un po’ in che guaio mi han messo questi tovarisc e assimilati, questi figli di Popòv. Per star sul sicuro mi affido alla letteratura, scapigliata o crepuscolare poco importa, e alla storia romana. Tra i miei monti non sono nati illustri poeti, scrittori eccellenti, storici dipendenti; inoltre di libri in giro se ne vedono pochi e meno se ne leggono e quei pochi che circolano non destano eccessiva ammirazione da suscitare trasmissioni e perpetuità genetico-ereditarie. È pur vero che in un paese vicino al mio, alla Sega appunto, poi improvvisamente cancellata dalle cartine geografiche e chiamata Bellavalle per chissà quali motivi lessicali, filologici, turistici o morali, vi è nato un latinista famoso in Italia, il professor Santoli56, ma oggigiorno il latino non interessa più niente e a nessuno, quindi con l’antico, la letteratura e la storia posso stare tranquillo.
“Nacialnik, scriva perché io vado coi nomi degli amici più cari, o almeno di quelli che ritengo tali, perché gli amici cosiddetti paesani non sono in realtà tutti amici ma solo conoscenti, le pare?”
“Da, da, davai bistrà”.
Forza che il tempo passa veloce e si fa tardi, davai bistrà. Marzio, Servio, Tarquinio, Menenio e… Ghepardi…
“Ecco, nacialnik, Giacomo Ghepardi, per gli amici Iacmo, lui è il migliore. Abita a Montilocchi, un gruppetto di case appollaiate sul fianco del monte Casso, distanti da casa mia alcune centinaia di metri, in via della Liberazione al n. 23. Fa il coltivatore indiretto; alleva polli, conigli e oche, galline in quantità; poi vende il tutto al mercato in quel di Pistoia, e ci fa i soldi, anche. Sta bene, sa, solo che è un po’ mattacchione anche lui e se potesse, ma solo per divertimento, fregherebbe diavoli e santi, tutti insomma, compresi quelli che so io. Lei, tovarisc nacialnik, ha mai visto prendere la galline, non del popolo socialista, ma di quello capitalista, come si pescano i pesci? No? E lei interprete? Neanche?”
Sguardi fulminanti dei tre tra di loro e me.
“Beh! Fa niente, ora ve lo spiego io come si fa e secondo la tecnica di Iacmo, di Giacomo. Dunque, prendevamo un filo, uno spago robusto e abbastanza lungo, quattro o cinque metri, che spinto da una pertica, dal confine del terreno di mia proprietà…”
“Cosa? Proprietario di terra anche, sì?”, esclama l’interprete naturalizzato e, preso il foglietto con l’appunto dei beni scrive: proprietario di terra, mugiko, latifondista, sfruttatore di contadini, bene…
“Ma la smetta ridicolo leninista; tutti gli abitanti, al mio paese, posseggono più o meno un pezzetto di terra vicino all’abitazione; un orto, un campo, un castagneto sì, ma nessuno sfrutta gli altri; altro che balle, ci sudano su quel fazzoletto di terreno che sembra un giardino tanto è curato. Tutti, dico, sono proprietari di terra; anche se qualcuno non lo possiede, vicino a casa al cimitero un pezzetto c’è per tutti. Mica s’usano in Italia le fosse comuni come qua; ad ognuno la sua tomba nella terra, proprietà privata almeno per dieci anni e per tutti, ricchi o poveri, latifondisti o nullatenenti. Ora ho perso il filo, ma non per la pesca, il filo del discorso, cribbio! Dunque, quel filo, spinto da una pertica, dal mio terreno, passando attraverso una fitta siepe di bossolo, un legno duro appartenente alla famiglia delle Buxacee, arrivava nel cortile della Peppa dove dall’alba al tramonto razzolavano le galline. Sa, le galline, com’è noto, hanno il cervello piccolo, da galline appunto, e quindi non ragionano troppo sulle cose. Beccano solo e sempre, vedono distante e bene, mangiano tutto ciò che trovano sul terreno che calpestano e rimuovono. Al capo del filo che si getta sul terreno altrui, si fissa un amo un po’ grosso, magari da trote; sull’amo s’infilza un lombrico, quei lombrichi che vivono sotto i sassi nei fossi… Ma per tornare all’argomento, tovarisc, un altro amico carissimo, amico per la pelle è… dunque vediamo un po’, è… – Romolo no perché così si chiama un parente; Remo nemmeno perché è il nome di un cugino di Firenze,… – è Pompilio Pozzali. Abita al di là dell’acqua, cioè del fiume Limentra, in località Cà di Stoppa, in via dei Collioni al n. 90. È figlio di un albergatore, cioè di un ristoratore, di un oste insomma. Persona ricca e molto nota in zona il padre, burbero anche, tirchio non poco, ma gran lavoratore però, uno stachanovista si potrebbe chiamare qua, e un vero signore vecchio stampo fine Ottocento o primi del secolo; un uomo tutto di un pezzo, onesto, rispettabilissimo. Tutto diverso invece il figlio”.
“Ah! Albergo da? Ristorante da? Capitalista e sfruttatore del popolo lavoratore, da?”, bofonchia l’interprete nostrano mentre il Robot programmato prende nota sul foglietto delle memorie proletarie e, nel contempo, scuote il testone non in qua e in là, ma dall’alto in basso e viceversa.
“Sarà come dite voi”, replica duro il c.b., “ma io conosco il padre da quando ero bambino e vi posso assicurare che è sempre stato una gran brava e degna persona, altro che reazionario. Ce ne fossero tanti come lui! È ricco, sì. Beh? Vorrei esserlo anch’io se potessi. Comunque, ritornando al caro amico Pompilio, posso dirvi che è ben diverso dal padre. A lui, più che lavorare, piace divertirsi; più che fare, far fare. Mica fesso, no? Che c’è qualcosa di male in questo atteggiamento?”
“Niente lavorare, niente mangiare”, commenta grave l’interprete.
“Giusto, va bene compaesano, ma tanto Pompilio mangia lo stesso. È iscritto da molto tempo all’Università, ma lui non ha fretta e poi più che studiare le studia tutte per non studiare affatto. Ha una personale visione della superficie terrestre, cioè della terra, che non ama perché troppo bassa; è convinto che l’acqua faccia venire prima o poi la pleurite ed è certo che le malattie non nascano da virus o batteri ma dal sudore raffreddato; per questo cerca di non sudare molto, anzi, fa di tutto per non sudare affatto. Punti di vista diversi, discutibili ma anche rispettabili perché soggettivi, non le pare anche a lei compagno interprete?”
“Prosegui e sbrigati, degno compare bersagliere borghese”.
“Insomma: Pompilio è un soggetto fatto così, ma è bravo, buono, generoso sempre, fuorché coi soldi perché non ne possiede mai uno che in tasca sbatta contro un altro; però si toglierebbe un pezzo di pane dalla bocca per darlo ad una persona affamata; è un amico, un vero amico per la pelle e con una fantasia viva e illimitata tanto che Collodi o Andersen sono niente al suo confronto. Quando il padre, che lo brontola dalla mattina alla sera, sistematicamente e ogni giorno che Iddio mette in terra, perché non sa mai dove si è cacciato; o allorché gli affida qualcosa da fare e che lui generalmente, ma solo per principio non fa affatto, inventa per l’occasione tante di quelle balle, o bugie, che non solo il padre, ma anche l’arcangelo Gabriele rimarrebbero perplessi e indecisi se punirlo o meno. E il vecchio padre nonostante tutto l’adora. Mi consenta nacialnik di raccontarle un piccolo, breve episodio e poi giudichi lei questo amico. Il giorno della merendina, cioè il lunedì dopo la santa Pasqua, noi…”
“Ah! Voi italianski succubi di fascisti e di popi, da? Popi e chiese dappertutto in Italia, da? E Vaticano pure, da? Voi borghesi tutti cristiani; troppe chiese, troppi popi in vostro paese; in Russia popi tutti caput e chiese tutti magazzini; noi ora essere liberi e tutti contenti; voi no”.
“Sì, va bene, ma che c’entrano i popi, le chiese, i cristiani? Lasciatemi finire il raccontino e poi dite ciò che vi pare sui popi, le chiese, il Vaticano e i cristiani. Allora… Dunque… Riprendo il filo, visto che nel vostro paese è difficile finire un discorso senza essere interrotti; allora il giorno della merendina al mio paesello si usa andare a fare una scampagnata nei campi e mangiare con gli amici sull’erba. Una bella bevuta, un ricco spuntino, qualche ballo con le ragazze incontrate, non a caso, sul prato prescelto; festicciola campagnola, semplice, senza pretese, kolkosiana si direbbe da voi; una festa però che da tutti è attesa perché così si usa da secoli e perché la Pasqua, in genere, oltre la primavera, il sole e il tepore, porta anche l’amore, la vita. Settimane prima dell’evento si elaboravano progetti e programmi per la merendina: scelta del luogo, itinerario, vettovagliamento, compiti, nomi delle ragazze da invitare e…”
Il lungo, improduttivo colloquio interrelazionario terminò dopo non poche ore in maniera insoddisfacente per tutti; però tutti, o quasi, convennero di ritrovarsi al più presto per completare notizie frammentarie, per chiarire ulteriori concetti, raddrizzare mentalità distorte e succubi, succubi in particolare e, infine, per impostare le basi metodologiche e didattiche sulle quali poi far leva per la rieducazione della psiche, della mente e del corpo, del modo di pensare e di agire di poveri esseri o soggetti educati nelle scuole tradizionali e borghesi, di élite, fasciste e reazionarie, asociali, capitalistiche e imperialistiche e chi più ne ha più ne scriva tanto non costa nulla, anzi si spende lo stesso.
Come premio per la collaborazione prestata, il celoviek bersagliere alcuni giorni dopo trascorse un breve soggiorno nella cella isolata attigua alla Kommandantura, dimora molto nota ai soliti testoni incalliti, non troppi per la verità, i quali, poveretti, ancora credevano nella dignità, nell’onore, nel giuramento fatto a Dio, alla Patria, al Re e agli amici.