Il Battaglione “Piemonte”
Riportiamo un estratto dello splendido lavoro fatto dal Dott. Alberto Turinetti di Priero, nostro ospite il 26 Aprile prossimo, sul Battaglione Piemonte.
Il battaglione Alpini “Piemonte”
A Castelnuovo al Volturno arrivarono anche gli Alpini, un reparto molto speciale, non solo per il cappello con la piuma, ma anche perché erano noti come coloro che “non volevano fare la guerra”… .
Per capire bisogna tornare alla sera dell’8 settembre 1943, a Bari.
Tra civili e soldati in festa per la notizia dell’armistizio, quella sera c’erano anche numerosi Alpini, quasi tutti provenienti dal Piemonte: reclute o richiamati in attesa dell’imbarco per il Montenegro, e “veci”, in attesa di una tradotta per la licenza. Tutti facevano capo ad un comando tappa della divisione “Taurinense”.
Nella grande confusione che venne a crearsi, qualcuno di loro fece anche parte del gruppo che attaccò i tedeschi al porto mentre tentavano di farlo saltare, ma gli Alpini rimasero uniti, fecero blocco forti del cappello con la piuma e della comune provenienza.
A Bari si trovava il capitano Renato Maiorca, aiutante maggiore del 3° reggimento Alpini, che nel caos generale pensò di raccogliere tutti gli Alpini che si trovavano nella zona. “Non fu semplice – scrive un testimone – gli alpini avevano un solo obbiettivo, raggiungere le loro case, i loro cari, dopo tre anni di sacrifici e rischi non volevano più saperne di tornare a combattere. La propaganda disfattista e comunista rafforzava le loro idee e il loro convincimento.”
Il capitano Maiorca riuscì a raggrupparne un certo numero in un “Reparto Esplorante Alpini” da inserire nella divisione “Piceno” che si diceva sarebbe di lì a poco entrata in linea e tale reparto fu spostato ad Alberobello (Bari).
Con il passare dei giorni i problemi aumentarono perché cominciarono ad arrivare i reduci dal Montenegro chi su una nave, chi su qualche peschereccio, chi su piccole barche a vela, magari dopo aver combattuto per giorni contro i tedeschi; molti erano in condizioni pietose, con le uniformi a pezzi e persino senza scarpe. Tutti avevano un buon motivo per protestare.
Non sapendo dove andare e che cosa fare si attendarono su una spiaggia del lungo mare in attesa degli eventi e quando qualcuno diede l’ordine di raggiungere il porto per scaricare le navi alleate, dissero in coro di no: un caso eclatante di insubordinazione!
Il 28 settembre, mentre ancora a Bari si registravano degli arrivi, gli Alpini cominciarono ad essere trasferiti a Presicce, in provincia di Lecce, quasi a Santa Maria di Leuca ed il nuovo reparto in costituzione fu battezzato battaglione “Taurinense”.
Il 1 dicembre, il neo battaglione fu trasferito a Nardò (Lecce), ma successe il finimondo. Si verificarono infatti numerosi incidenti con la popolazione locale, che accusò gli Alpini di rubare nelle campagne e di atti di prepotenze varie, culminati in una colossale rissa per una partita di pallone, seguita da ritorsioni multiple e vicendevoli.
Inoltre gli Alpini si sentivano abbandonati: vitto scarso e pessimo, uniformi a brandelli, calzature inesistenti. Sensibili ad una propaganda diffusa che li invitava a disertare, dichiaravano apertamente di non voler più “far la guerra”, ma di voler soltanto tornare a casa; si verificarono gravi atti di indisciplina ed i più agitati vennero allontanati.
Il 1 gennaio 1944 arrivò un nuovo comandante, il maggiore Alberto Briatore, alpino dell’Appennino ligure, che si rese immediatamente conto della grave situazione e dell’impossibilità di sopportare oltre la difficile convivenza con i civili, che stava prendendo una pericolosa piega ideologica e politica.
Il maggiore Briatore non piacque e fu immediatamente battezzato “Najone” per la sua severità, scambiata per un assurdo attaccamento alla forma, però fu lui a pretendere tre cose dai superiori comandi che cambiarono la vita agli Alpini: innanzi tutto che il battaglione fosse spostato in altra provincia in una zona dove non ci fossero altre truppe, poi che fossero finalmente distribuiti nuovi capi di vestiario ed infine il miglioramento del vitto.
Fu così che il 10 gennaio 1944 il battaglione venne trasferito a Cisternino (Brindisi), dove si trovava già una batteria di artiglieria da montagna su quattro pezzi.
Gli Alpini lasciarono Nardò senza rimpianti, ma all’arrivo nella nuova località trovarono il paese vuoto e le case sbarrate… La loro fama li aveva preceduti e la popolazione alla notizia dell’arrivo di quegli ossessi si era chiusa in casa o era scappata nei paesi vicini! Passarono solo pochi giorni e poi i rapporti divennero normali, anzi sempre più cordiali.
Pochi giorni dopo, un’altra sorpresa, perché il 14 arrivò una colonna di 80 quadrupedi messi a disposizione del battaglione. Gli Alpini si fecero sospettosi, “Gli sguardi dei soldati avevano assunto quell’espressione bovina che sotto un’apparenza quieta è piena di significato per chi sa comprenderla. Quegli sguardi dicevano: voi credete di stringere le ganasce della naia, ma vi sbagliate; al momento opportuno ce ne andiamo.”
Ancora qualche giorno e arrivarono nuove serie di uniformi, scarpe ed equipaggiamento, mentre il vitto riprese un corso normale. Pur continuando a recitare un rosario di moccoli il cui succo era quello che non avrebbero più “fatto la guerra”, tra gli Alpini riprese un certo spirito di corpo ed il morale rinacque.
Malgrado il pessimismo dimostrato da alcuni generali in visita, il 27 gennaio il battaglione, ormai strutturato su tre compagnie, partecipò ad una esercitazione a Ostuni, dimostrando buona capacità operativa, ed il 3 febbraio, alla fine di una nuova esercitazione a fuoco, il comandante del 51° Corpo d’Armata, ancora incredulo per quello che aveva visto, non poté che complimentarsi con il maggiore Briatore.
C’era un altro problema… Agli Alpini quel nome di “Taurinense” dato al battaglione non garbava, ricordava troppo il penoso soggiorno in Jugoslavia e le giornate del settembre 1943. Idea felice quella del maggiore Briatore di ribattezzare il reparto in “Piemonte”, nome che ricordava casa e famiglia.
Seguirono altre esercitazioni sul terreno anche con la batteria alpina e si arrivò al 10 marzo, quando giunsero tre ufficiali inglesi per ispezionare il battaglione. Dapprima freddi e diffidenti, assisterono impassibili all’ennesima esercitazione a fuoco, finendo per esprimere i più ammirati elogi per quello che avevano visto. Ciò però significava che il battaglione era considerato pronto all’impiego.
Gli Alpini mangiarono la foglia e ricominciò la litania: “Alòra perché andòma nen a cà?” e a chi gli diceva che a casa c’erano i tedeschi rispondevano “Già ai è i tedesc! E còn l’on? Nòi la fòma pi nen la guera, boja fauss!”
Se poi qualcuno insisteva gli veniva cantato un ritornello: “Se la naia ti reca dolore, va dal tuo comandante Briatore”, come per dire provaci!
Il battaglione “Piemonte” sulla Linea Gustav
Si arrivò così al 17 marzo 1944, data fatidica, quando apparve una colonna di 52 automezzi vuoti che si fermarono all’ingresso del campo. “Trasferire il battaglione non fu semplice – ricorda un testimone – non tutti erano propensi, tanto che all’apparire degli automezzi vi furono delle manifestazioni ostili tra alpini ed ufficiali, la notte per timore di atti vandalici o teppistici, furono create squadre di sorveglianza con alpini più fidati.”
Sta di fatto che all’alba seguente la colonna di 52 vetture mosse alla volta del fronte con l’intero battaglione a bordo, mentre gli abitanti di Cisternino scesero nelle strade con gli occhi lucidi e corsero a salutare gli Alpini, considerati ormai di casa.
Il viaggio durò 24 ore ed è probabile che le distruzioni che sfilarono sotto gli occhi degli Alpini riottosi li fecero riflettere sul fatto che per arrivare a casa qualcosa bisognava pur fare per la causa. All’arrivo a Scapoli erano comunque tutti presenti! A dire il vero lo spettacolo che si presentò loro non era dei più incoraggianti. I paesi erano vuoti e le case distrutte. Che differenza con la Puglia! Era vero, non avrebbero combattuto, ma che pietà per quello che adesso vedevano. C’era di che pensare… .
In effetti, i paesi, ad eccezione di Castel San Vincenzo, si presentarono deserti, come racconta nelle sue memorie un reduce, il tenente Gianni Moro, dell’11° Artiglieria: “Al nostro arrivo (a Scapoli n.d.r.) le uniche persone che vi troviamo sono il parroco e qualche sperduto, miracolosamente sfuggito alla deportazione tedesca.” Circostanza confermata da un altro testimone, l’alpino Francesco Ferrero: “Quando arrivammo a Castelnuovo al Volturno, il paese era vuoto; c’era soltanto il sagrestano, che tutti i giorni nel pomeriggio recitava il rosario davanti al portone della chiesa distrutta. Gli Alpini sorridevano per l’accento con il quale pronunciava il latino, ma poi presero l’abitudine di partecipare e qualche volta si univa il cappellano Don Pera, un bresciano.”
Moccoli e bestemmie, ma le compagnie si sistemarono in ordine, rispettati i turni di guardia, organizzazione dei rifornimenti, corvées di muli, perlustrazioni, insomma un reparto perfettamente in ordine, anche se la disciplina formale qualche volta lasciava posto a quella sorta di autodisciplina scanzonata propria dei reparti alpini… Gli ufficiali si dovevano adeguare: ad un ordine seguiva spesso un “signorno”, con seguito di mugugno, ma un ufficiale non sarebbe mai stato lasciato da solo al pericolo… .
Pochi giorni dopo arrivò inaspettato un camion americano che scaricò sulla strada balle e scatoloni pieni di indumenti e scarponi da alta montagna, subito distribuiti ai plotoni esploratori delle varie compagnie. Un segno bene augurante che seguiva il regolare ed abbondante invio di scatolame e viveri di ogni genere.
Il Monte Marrone
Quando gli Alpini arrivarono alle falde di Monte Marrone, tutti si stupirono del fatto che quella montagna minacciosa che li sovrastava fosse ancora nelle mani dei tedeschi.
In effetti il 13 febbraio, il generale Guillaume aveva elencato in un documento le possibili azioni offensive da intraprendere: “La prima azione, ad effettivi ristretti, si poteva svolgere in direzione nord avendo per obbiettivo la conquista di Monte Marrone-monte Mare per privare il nemico di tali importanti osservatori.”
Il generale Utili aveva offerto i propri reparti per l’impresa che sembrava ormai prossima, ma il 10 marzo il generale Guillaume avvertì che il C.E.F. avrebbe lasciato le sue posizioni e che il I Raggruppamento sarebbe passato agli ordini del 2° Corpo polacco.
Il generale Guillaume avvertì anche che l’azione su Monte Marrone sarebbe stata rinviata ed il coordinamento passava al comando del 2° Corpo Polacco ed in particolare a quello della 5a divisione di fanteria. Dai primi incontri con i Polacchi, questi si dimostrarono entusiasti del piano italiano e garantirono ogni appoggio possibile specie da parte della loro artiglieria, tanto che il 24 marzo, nonostante una nevicata, le compagnie del battaglione “Piemonte” iniziarono gli spostamenti necessari.
Nella giornata del 30, vigilia dell’azione, la 1a compagnia raggiunge la base di partenza; un pezzo della batteria venne issato sul monte Castelnuovo, conquistato il 23 febbraio dal IX battaglione d’assalto; il comando della batteria e gli altri tre pezzi vennero dislocati a quota 1193.
L’azione iniziò alle 3,30 del 31 marzo.
Dal diario del battaglione:
“Alle 3,30 ha inizio l’azione. Fra le 5,30 e le 6,15 i nuclei esploranti delle compagnie raggiungono la cresta occupandola di sorpresa; ad un’ora di distanza raggiungono gli obbiettivi anche gli elementi successivi. L’azione si svolge con regolarità e precisione cronometrica. Durante tutta la giornata continua il lavoro dei portatori per far affluire sulle posizioni il materiale e le munizioni occorrenti. Un alpino si ferisce per un accidentale colpo di arma da fuoco, un altro si ferisce cadendo da un roccione.”
Tutto qui, sì tutto qui, ma per apprezzare il gesto occorre pensare che le tre colonne in cui fu diviso il battaglione dovettero superare un dislivello di circa 700 metri, al buio completo. Ogni uomo, oltre all’armamento ed all’equipaggiamento individuale, portava uno zaino con un carico di circa 40 chili, perché tutto doveva essere trasportato a dorso d’uomo: viveri, munizioni, attrezzi, mitragliatrici, fucili mitragliatori e mortai. Altro che “non fare la guerra”… .
Gli Alpini erano preceduti dai plotoni esploratori, fra i quali alcuni valdostani, a cui competeva trovare il percorso migliore e, in alcuni punti con difficoltà di 2° e 3° grado, assicurare le corde con le quali issarsi.
Alle 6,15 i primi esploratori erano sulla cresta ed entro le 7,15 i fucilieri erano già disposti a difesa, mentre il grosso si dava da fare a scavare postazioni, stendere filo spinato, riempire sacchetti a terra.
All’alba tutto era pronto e la 1a e la 2a compagnia si distribuirono lungo la linea di difesa, mentre alla 3a fu affidato l’incarico di continuare l’opera di rifornimento.
L’azione era riuscita perfettamente anche grazie all’attento esame della montagna eseguito nei giorni precedenti dagli addetti all’osservazione.
In un rapporto, il sottotenente Andrea Pingitore, della 3a compagnia aveva scritto:
“Spiccano nettissime tre punte (la più bassa a sinistra, circa 1600 m.s.m. = la più alta a destra, 1770), con strapiombi calcarei rossicci di 200/300 metri, difficilissimi. La parete Est è solcata da 3 grandi canaloni in taluni punti boscosi e da svariati canalini ripidissimi, di neve e ghiaccio, che portano diretti in cresta.
Il canalone più grande, a sinistra, non presenta speciali difficoltà; trecce di sentiero alla base, attacco visibilissimo. Uno, due metri di neve dura, salita in ramponi, discesa in scivolata. Esce in bosco, sulla sella fra la prima e la seconda quota (da sinistra a destra).
Il canalone al centro, più stretto, obliqua verso la 1770, la quota più alta, ed esce sulla selletta a destra, la più interessante. Si sale sul bordo destro del canalone. Neve dura e ghiaccio = ramponi e piccozza = discesa con prudenza.
A metà percorso, dal bosco sinistro si biforca un arditissimo canalino di ghiaccio e neve, con rocce affioranti; che sale alla 1770. Cordata di tre elementi = ramponi = piccozza ed attrezzatura da roccia. Passaggi di terzo e quarto grado, via da attrezzare come eventuale itinerario di ripiegamento.
Il canalone di destra si restringe sovente, supera subito un salto di roccia di circa 100 metri, ed esce in ripido bosco, sull’orlo della parete Nord. Salita in ramponi e discesa in scivolata nel solco centrale. Due passaggi obbligati di 1° e 2° grado.
Cresta facile da percorrersi a Nord, difficile dalla selletta sotto 1770 a tutto il resto del percorso. La 1770 è attrezzata con circa 250 metri di corda fissa, ininterrotta, e l’osservatorio del costone Nord con altri 48 metri. Chiodoni in ferro dolce, con occhiello fisso.
I tedeschi reagiscono
E i tedeschi? Si fecero vivi il 2 aprile con una pattuglia che osservò da 800 metri, andandosene dopo i primi colpi di mortaio.
Nella notte fra il 3 ed il 4 aprile invece, un’altra pattuglia si avvicinò a meno di 20 metri dalle postazioni della 1a compagnia, innescando una vivace reazione. Un caporale ed un soldato tedeschi feriti rimasero sul terreno e vennero catturati; furono rinvenuti un fucile mitragliatore, due mitra, un fucile, 5 bombe a mano, un binocolo e munizioni varie.
Nei giorni seguenti le postazioni vennero migliorate, furono piantate tende, preparati ricoveri, aumentate le difese con filo spinato e mine, ma se gli Alpini erano riusciti nell’impresa non furono da meno gli Artiglieri alpini. Un pezzo era già stato piazzato su monte Castelnuovo ed un altro fu issato fin sulla vetta di Monte Marrone. Costò una fatica terribile, issato a mano con l’aiuto di corde ed un cavo d’acciaio.
Soltanto il 10 aprile, i tedeschi tentarono con un colpo di mano di riprendere la cresta.
Dal diario del battaglione:
“Alle ore 3,25 del giorno 10 aprile 1944 le vedette avanzate della 1a compagnia schierata tra la q. 1770 di M. Marrone e la selletta a Nord della quota stessa udivano rumori sospetti provenienti dal bosco antistante.
La visibilità era nulla a causa dell’oscurità e della fitta nebbia. Poco dopo lo scoppio di una mina confermava il sospetto che si trattava di un attacco nemico. Dato l’allarme le truppe si schieravano prontamente nelle loro posizioni. Alle ore 3,30 cadevano sulle nostre linee colpi di artiglieria, di mortai e di bombe lanciate con fucili lanciabombe; subito dopo avveniva l’assalto nemico accompagnato da fuoco di armi automatiche. I tedeschi si slanciavano contro le nostre posizioni al grido di assalto e malgrado la pronta reazione di fuoco delle nostre armi un’aliquota di essi riusciva a superare la cintura dei reticolati e ad infiltrarsi nella nostra organizzazione difensiva ove si accendeva una mischia violenta a colpi di bombe a mano e con tiri di moschetti automatici. Il pronto intervento dei pochi elementi di manovra ed in special modo degli esploratori e di una squadra fucilieri della terza compagnia riusciva a respingere gli attaccanti che, approfittando dell’oscurità del fitto bosco, ripiegavano precipitosamente sulle posizioni di partenza. Il combattimento è durato circa due ore, le forze attaccanti sono da valutarsi, anche per dichiarazioni di un prigioniero, superiori al centinaio. I tedeschi che hanno fatto l’azione appartengono a reparti di Gebirgsjaeger ed indossavano tute bianche.
Perdite nostre: Un sottufficiale morto (1), Cinque alpini feriti da schegge e bombe a mano.
Perdite nemiche accertate: 3 soldati morti, 1 soldato prigioniero.
Presumibilmente le perdite del nemico sono state molto gravi, essendo state notate sulla neve tracce di sangue e traccia di corpi trascinati. E’ stato rastrellato il seguente materiale: n. 2 mitragliatrici, 3 pistole mitragliatrici, 4 fucili Mauser con lanciabombe, 4 canne di ricambio per mitragliatrici, 5 cassette portamunizioni, 1 barella portaferiti, 30 caricatori per mitra, 20 bombe per Maser lanciabombe, 9 bombe a mano.
Il comportamento degli alpini è stato, anche in quest’occasione, degno di massima ammirazione.
(1) Il prode sergente maggiore Mario Falubba le cui condizioni di salute avevano reso non idoneo alle fatiche di guerra, ma che aveva voluto volontariamente rimanere a far parte della sua compagnia partecipando, fino all’olocausto della vita, al suo impiego.”
I tedeschi non tentarono altre azioni, ma mantennero le posizioni italiane sotto pressione con tiri di artiglieria e mortai che si abbatterono su tutta la zona, fin nelle retrovie. Durante uno di questi bombardamenti, il 22 aprile, furono feriti ben sette ufficiali e cinque Alpini del battaglione, mentre qualche giorno dopo un ufficiale e due alpini furono feriti dallo scoppio di una mina.
La notizia della cattura di Monte Marrone si era sparsa velocemente tra i comandi italiani e quelli alleati, ed aveva suscitato viva curiosità ed ammirazione.
Si susseguirono visite illustri, talune dovute, come quelle dei generali italiani ai vari livelli di comando, altre molto gradite come quella del generale Sosnkowski, comandante generale delle forze polacche in Europa, del generale Anders, comandante del 2° Corpo polacco, e del generale Leese, comandante dell’8a Armata inglese, che il 19 aprile fu ospite del generale Utili a Scapoli.
Sensazione e sorpresa destò quella del generale Mac Creery comandante del X Corpo britannico, che volle salire fino al comando di battaglione, ma, tra l’imbarazzo di tutti, volle essere accompagnato fino in cima a monte Marrone, affermando che a lui, scozzese, le montagne erano familiari. La salita fu compiuta in quattro ore con qualche apprensione per via di alcune cannonate in arrivo, ma anche per un ruzzolone dell’illustre ospite. Il generale scozzese rimase in ogni caso molto ammirato da ciò che vide ed il giorno successivo fece giungere un biglietto personale al maggiore Briatore: “Major Alberto Briatore, with the compliments and the wishes of Lt General R. Mc Creery, Commander 10 Corps.”
Un’altra visita passò alla storia del battaglione e fu quella del principe Umberto che, giunto al comando, espresse anche lui il desiderio di salire in cima. Al coro di no che seguì, il principe si avviò da solo lungo la mulattiera appena ultimata, ma, fatti pochi passi, fu fermato da un Alpino di sentinella che gli spianò il fucile contro, apostrofandolo molto borghesemente: ““Ma chiel andova a cred d’andé? (Ma lei dove crede di andare)?”. Il Principe gli rispose in piemontese: “Ma mi i son ël Prinsi!” l’Alpino si riprese dalla sorpresa e cominciò un lungo dialogo nella lingua comune, ma l’Alpino passò fra le leggende del battaglione come colui che non aveva riconosciuto il Principe…
La morte del tenente Enrico Guerriera
Il 17 aprile al I Raggruppamento Italiano fu assegnata la nuova denominazione di Corpo Italiano di Liberazione, passando alle dipendenze del X Corpo d’Armata britannico ed estendendo la propria linea di difesa.
La vita sul monte Marrone era certamente scomoda e pericolosa per i continui bombardamenti di artiglieria e mortai, ma per tutto il mese di aprile furono eseguiti continui miglioramenti. Venne ultimato il lavoro per la mulattiera eseguito dal Genio del I Raggruppamento, che permise di trasportare a dorso di mulo i rifornimenti fino alla quota 1.770; un’altra mulattiera venne tracciata fino al pezzo su monte Castelnuovo.
Ai primi di maggio, le compagnie del battaglione “Piemonte” furono sostituite da quelle del XXXIII e del XXIX battaglione Bersaglieri, con i loro plotoni di arditi. Sulla vetta fu lasciato il pezzo da 75/13 della batteria alpina, al comando del tenente Enrico Guerriera.
Alla vigilia della nuova offensiva alleata si verificò un improvviso colpo di mano che costò la vita ad un ufficiale ed a due bersaglieri.
Dal diario del battaglione:
“Il tenente Guerriera Enrico caduto sul Monte Marrone a sud della q. 2021 il giorno 11 maggio 1944 alle ore 19 circa comandava un pezzo isolato postato sulla quota 1170 di M. Marrone.
Una pattuglia di bersaglieri ha occupato di sorpresa la quota 2021 approfittando della nebbia. Verso le 16 si profila il contrattacco tedesco. Un bersagliere ferito scende dalla quota verso il Marrone, ma fatte poche decine di metri cade a terra e non si muove. Il tenente Guerriera che l’ha visto cede il comando del pezzo ad un altro ufficiale e presosi un volontario (sergente Accossato) va a portare aiuto al ferito. Il ferito intanto si rialza e Guerriera constatato che può proseguire da solo sale sulla quota a dar man forte ai bersaglieri che sono fortemente impegnati. Trascinato dall’entusiasmo per il combattimento si trova ben presto davanti e con l’esempio e con la voce incita tutti alla resistenza. Non desiste benché ferito alla testa da un colpo di mortaio, non desiste benché ferito altre due volte alla spalla ed al braccio, non desiste dal suo atteggiamento che suscita l’ammirazione dei presenti fino a quando una raffica di mitragliatrice lo coglie in pieno petto facendolo cadere esanime.
Ore 19 circa.”
Fu l’ultimo episodio di guerra avvenuto sulla cresta di monte Marrone.
Addio a Monte Marrone
Il battaglione “Piemonte”, secondo gli ordini impartiti dal comando del C.I.L, partecipò all’operazione “Chianti” ed il 27 maggio 1944, mosse in avanti verso il colle dell’Altare, dovendo sostenere diversi scontri contro le retroguardie tedesche. Nei giorni successivi la colonna Briatore si spinse nella valle di Canneto, fino al santuario della Madonna di Canneto, dove incontrò di nuovo una vivace resistenza tedesca. Il 30 maggio, ricevette l’ordine di tornare indietro.
Il C.I.L. sarebbe stato trasferito su un altro settore del fronte… .
Il ricordo lasciato fra le popolazioni del Molise si mantenne negli anni e nel 1968 il comune di Scapoli volle omaggiare i soldati italiani con una lapide, alla quale seguì una seconda nel 1984.
In occasione delle cerimonie del trentennale, fu inaugurato con grande partecipazione di reduci il monumento a colle Rotondo, proprio alla base di monte Marrone. Opera dello scultore Vittorio Piotti, un alpino, esso è stato eretto a cura della Regione Molise, “il monumento simboleggia con i blocchi dedicati alle venti regioni italiane la liberazione delle quali è avvenuta anche grazie agli Alpini di Monte Marrone rappresentati dall’aquila che spezza le catene della dittatura dinanzi alle tre croci simboli dei martiri della libertà.”
Venne eretta la croce con l’aquila appoggiata, che svetta ancora oggi sulla cima del monte. Essa fu voluta dai reduci del battaglione e finanziata con i proventi del libro “Una guerra da signori: diario di guerra di un sergente degli alpini” scritto da un reduce, Sergio Pivetta, allora giovane sergente maggiore, volontario nel battaglione “Piemonte” che, come lui stesso racconta, aveva preferito lasciare il corso di Allievi Ufficiali che stava frequentando pur di raggiungere gli Alpini, rinunciando alla promozione ormai sicura; l’avanzamento al grado gli fu poi conferito per meriti di guerra.
Motivazione della medaglia d’Argento al Valor Militare conferita al Btg. Alpini “Piemonte”
Costituto con elementi della divisione alpina “Taurinense”, che dai porti adriatici della Balcania riuscirono a raggiungere fortunosamente la Puglia dopo l’armistizio, partecipava a tutta la guerra di Liberazione riconfermando ognora la tempra intrepida delle genti della montagna. Alla gloria perenne delle nostre armi offriva due difficilmente pareggiabili esempi di fusione perfetta di perizia, valore e fortuna: prima a Monte Marrone, scalato di sorpresa per la ripida parete ed eroicamente difeso sull’orlo dell’abisso alle spalle; poi a quota 363 di Valle Idice, strappata al nemico con una stoccata saettante e fulminea, spezzando la cerniera delle due Armate tedesche in Italia, donde poi traboccò su Bologna.
Campagna di Liberazione, 18 marzo 1944-8 maggio 1945.”
ALBERTO TURINETTI DI PRIERO